La pandemia da Coronavirus ha pesanti effetti anche sul settore del autotrasporto merci, con le strade praticamente vuote, con pochi camion in viaggio. «Nelle autostrade ormai vedi solo motrici: i Tir consegnano la merce e poi tornano vuoti, non riescono più a controbilanciare il viaggio di andata con quello di ritorno. Il settore dei trasporti, che fino ad alcune settimane fa in qualche modo resisteva, sta pericolosamente frenando» lamenta il vicepresidente di Confcommercio e Conftrasporto Paolo Uggè, che parla di un calo medio dei fatturati oltre del 60%, con punte del 90%, e di interi settori fermi.
«Con la chiusura dei cantieri e delle attività produttive, anche l’operatività delle imprese di autotrasporto si è drasticamente ridotta, e la percentuale di perdita stimata due settimane fa dal Cerved nel 30% è praticamente raddoppiata nel giro di soli 14 giorni» sottolinea Uggè. Secondo le rilevazioni di Conftrasporto, con la chiusura di molti stabilimenti produttivi del Nord Italia, si è anche invertita la direzione dei traffici: si va dalle regioni meridionali a quelle settentrionali per trasportare generi alimentari, ma poi le motrici dei Tir tornano vuote a destinazione, con una conseguente perdita per le aziende di autotrasporto.
A tutto questo si aggiungono le lettere recapitate ai fornitori da diversi committenti che preannunciano lo slittamento dei pagamenti anche di 12 mesi, e il fatto che la proroga della validità delle patenti e revisioni scadute vale solo in Italia, con il rischio per chi effettua trasporti internazionali, anche all’interno della sola Ue, di vedersi appioppare multe salatissime, se non addirittura il fermo del mezzo.
Uggè paventa il blocco dell’autotrasporto merci: «se andiamo avanti così, con misure che ormai stanno bloccando le attività del Paese, corriamo fortemente il rischio di forme autogestite di protesta che potrebbero arrivare a un fermo generale dell’autotrasporto anche per i settori indispensabili».
Anita Confindustria denuncia invece la mancanza di liquidità e l’esplosione dei costi di trasporto, causate dalle misure di contenimento da Coronavirus, che fanno lavorare in perdita le imprese dell’autotrasporto merci e logistica, spingendole verso la drammatica scelta di chiudere le proprie attività.
«Le nostre aziende specializzate nel trasporto di alimentari freschi, oltre al forte calo del fatturato, subiscono enormi costi per lo sbilanciamento dei flussi di traffico, i percorsi a vuoto, i lunghi tempi di attesa presso gli stabilimenti aziendali e le frontiere – afferma Umberto Torello, presidente di Anita Transfrigoroute Italia -. Non possiamo continuare a fornire servizi di trasporto per garantire l’approvvigionamento dei prodotti alimentari in assenza di un adeguato sostegno economico e finanziario da parte dello Stato».
Secondo gli associati di Anita, le misure contenute nel decreto “Cura Italia” non sono sufficienti. Si limitano a spostare i termini di pagamento di oneri e tributi per lo Stato. I contributi in conto gestione per le imprese sono irrisori. Lo slittamento delle scadenze dei prestiti rateali e mutui non è previsto per le grandi imprese.
«Per mantenere in vita il settore abbiamo bisogno di interventi più massicci. Ci vuole una terapia d’urto che dia liquiditàalle aziende, permettendogli per i prossimi anni di risparmiare sui costi al fine di bilanciare le ingenti perdite accumulate in questi mesi – evidenzia Thomas Baumgartner, presidente di Anita -. Chiediamo al Governo di aumentare adeguatamenteil fondo del ministero dei Trasporti, previsto per le imprese iscritte all’Albo, per garantire lo sconto massimo dei pedaggi autostradali già accordato, contestualmente all’esonero totale del pagamento per i mesi di aprile e maggio. Chiediamo il temporaneo esonero dalle accise sul gasolio. Necessari anche la decontribuzione degli oneri sociali, da imputare a carico dello Stato e interventi sui costi dei traghetti per garantire la continuità territoriale per le isole».
La filiera logistica nazionale impiega 1,5 milioni persone e in tempi normali produce il 9% del Pil italiano. La chiusura di tante aziende, oltre ad avere effetti catastrofici sull’occupazione, metterebbe a repentaglio l’approvvigionamento dei beni di prima necessità e comprometterebbe la ripresa economica una volta finita la fase emergenziale.
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