In SudAfrica il vino non è di primaria importanza per cui la vendemmia in corso potrebbe essere bloccata causa il fermodi tutte le attività produttive non essenziali. Coronavirus o non, l’Italia del vino presenta un conto che appare salato: una giacenza importante nelle cantine derivante ancora dalla abbondante vendemmia del 2018, da un probabile calo di consumi di vino soprattutto come esportazioni bloccate, sicuramente una prossima vendemmia in Europa alla porte che pone diverse domande. C’è bisogno di togliere dalle cantine 6-7 milioni di ettolitri di vino perché rappresenta un surplus difficilmente piazzabile.
I record 2019 di 6,4 miliardi di euro di valore esportato, e gli 11,1 miliardi di produzione lorda vendibile (Plv) in cantinadifficilmente replicabili, ma il vino non è solo fatturato, non è solo un bene economico. Dà occupazione, fa impresa, è un simbolo dello stile italiano. La Coldiretti ha presentato una idea di distillazione del vino per produrre alcol disinfettante e igienizzante. Può essere un valido supporto alle giacenze. Ma quanto sta succedendo deve essere un monito per riflettere anche sul vino post-Coronavirus.
Può il vino essere considerato come un bancomat alla faccia del valore della vigna, del territorio, del paesaggio vitato, delle integrazione con altri settori? Finalmente, oggi, anche chi – ed erano molti e spessissimo ai vertici degli enti nazionali – è stato da sempre dall’altra parte, riscopre la paternità fondante determinante unica della vigna e del territorio su cui si coltiva. Almeno così sembra da molte “mea culpa” che oggi si leggono, anche velatamente.
Quando con Fregoni leggevo la bozza della legge 164 a gennaio 1992, ci lamentavamo con Goria che c’era ancora poca“vigna”. Ma la opinione più diffusa al tempo era “fare molto vino Doc, più rapporto qualità/prezzo”. La vigna era una macchina che poteva produrre massimo tot chili, il dato catastale decretava la superficie reale, era il vino che seguiva i parametri Doc. Negli anni della grande produzione nazionale, 65/70 mio/hl, la vigna doveva produrre molto e sempre, e basta. Questo fino agli ultimi 20 anni, quando vigne-vino Docg-Doc diventano il 70% circa di tutta la produzione, finiscono i sostegni alle superproduzioni.
Ecco che tutto quello che fa business diventa il vero fattore e obiettivo: scatta imperante e compulsivo il bisogno di cantine estrose, da copertina, opere omnia di grandi architetti, nasce la rincorsa a riempire le cantine di tutte le macchine possibili immaginabili, sotto l’input coercitivo di enologi alla caccia di un posto di prima fila in guide, teatri, palcoscenici. “Il premio si prende anche con lo storytelling di cantina”, ecco il mantra. E allora a caccia del filtrotangenziale più lungo, più largo: entrare in cantina doveva essere come entrare nella sala chirurgica di Città del Capo. L’enologia–enometria prese il sopravvento confortata da premi, voti, volumi, quantità!
Ma ancora nel 1981-82 vendevo, senza nessun calcolo commerciale, le ultime mie bottiglie di vino rosso a 1200 lire (poco più di un litro di latte dal lattaio), l’Istat dice, che sarebbero 1,65 euro. Dello sfuso prendevo 600 lire, oggi lo sfuso, e buono, in abbondanza è mediamente a 0,40/0,50 euro al litro, in Italia come in Spagna. No comment!
In 40 anni che grande successo ha avuto il famoso rapporto qualità/prezzo o prezzo/qualità decantato dai maestri di cantine? E’ vero sono spariti molti contadini dal braccino corto che non pagavano di sicuro professionisti esterni, si sono moltiplicati e sparsi tanti nuovi viticoltori che hanno costruito aziende modello grazie a ricavi in altri settori. Ma chi ci ha guadagnato realmente: il mondo che ruota attorno alla cantina!
Chi aveva vigna ha estirpato: erano 1,23 mio/ha quando ero vignaiolo, oggi sono 0,64 mio/ha. Quanto valore patrimoniale,quanto valore ambientale colturale arboricolo utile abbiamo perso? Certo oggi beviamo tutti, tutto, molto meglio, molto meno, meno della metà di quegli anni.
Un grazie anche a Veronelli che ci ha insegnato “che camminare in vigna” non è da tutti, ma anche che non tutti i vini del contadino sono buoni, che il vino standard tutti gli anni non lo fa la vigna. A distanza di 40 anni siamo più consapevoli,più misurati e più responsabili. Ma ci siamo dimenticati il vero obiettivo: solo la massima attenzione, cura e sviluppo del rapporto valore/identità è l’unico binomio/rapporto che sposta la bilancia, non solo economica ma anche vitale e mentale di tutto il settore, dal vino alla vigna. E aggiungo, oggi 2020, anche la testa, la passione, l’impegno, il luogo, la terra, la storia, la cultura, la vigna, la bellezza sono fattori economici che decretano l’identità di un valore più complesso.
Pensiamo quindi alla prossima vendemmia 2020 come una vendemmia zero, di ripartenza e di revisione di tutto il modello. Sono anni che come Ovse-Ceves chiediamo a tutti gli enti e ai vari ministri di “pensare” a non correreall’impazzata verso l’export, di rivedere il consumo e il mercato nazionale anche stimolando una nuova Pac-Ocm più orientata anche al mercato europeo, a strumenti di valorizzazione della vigna e delle imprese. Più attenzione al valore“ambientale” di un impianto di vigna (come un uliveto) anche in una fase di cambio del clima, di necessità dell’ambiente, di utilizzo e presenza di coltivazioni estese e curatrici di certi terreni sensibili, portando anche occupazione e presenza umana. Benissimo la distillazione eccezionale e contingente, ma alziamo l’asticella, puntiamo ad un piano #postvirusperché tutto dovrà essere rivisto, #tuttocambia.
L’economia del vino e di una cantina non è più un calcolo matematico, un algoritmo, un integrale di numeri. Questo è il grande messaggio che l’Italia deve fare per prima, proprio perché è il primo paese al mondo per produzione, quindi per vigne e vigneti da difendere, come patria e come origine anche genomica della vitis vinifera
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