Elezioni in Emilia Romagna: chiusura della campagna tra le polemiche e accuse incrociate

Il centrodestra di Borgonzoni tenta la spallata storica in Regione contro il potere Dem. Zingaretti, Salvini diffonde odio. Si vota dalle 7.00 alle 23.00, con spoglio delle urne immediato. Vince il candidato governatore che prende un voto in più dell’avversario. 

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elezioni in emilia romagna
I leader del centro destra sul palco del comizio conclusivo a Ravenna.

Dopo un massacrante mese, la campagna elettorale per le elezioni in Emilia Romagna si è chiusa all’insegna delle polemiche e delle accuse incrociate, soprattutto tra i vari leader nazionali che hanno scelto il palcoscenico regionale per una prova di forza di valore nazionale, dove chi vince o rafforza il governo o lo manda a casa e il Paese alle elezioni politiche anticipate per eleggere un Parlamento decisamente migliore di quello attuale.

A Ravenna il centrodestra di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi è unito contro Stefano Bonaccini, sicuro che il voto di domenica «libererà» l’Emilia Romagnarossa” e contemporaneamente «sfratterà» Giuseppe Conte da Palazzo Chigi, con Giorgia Meloni già pronta a suonargli il campanello e a consegnagli l’avviso.

Il centrosinistra di Bonaccini ha chiuso a Marzabotto, la cittadina simbolo della resistenza, privo di supporter nazoonali del suo partito, concludendo una campagna dove il simbolo del PD è stato oscurato per evitare che i problemi di Bibbiamo e del governo nazionale potessero in qualche modo riverberarsi sulla competizione del presidente uscente della Regione.

I tre leader del centrodestra, insieme alla candidata governatore della Regione, Lucia Bergonzoni, hanno chiuso assieme la lunghissima campagna elettorale in piazza a Ravenna, sicuri di una vittoria storica (supportata anche dai sondaggi riservati che le varie forze politiche hanno continuato a fare anche se non è stato possibile pubblicarli) che da lunedì cambierà tutto, a Bologna come a Roma.

«Lunedì citofoneremo a Conte e gli facciamo fare gli scatoloni», ha detto dal palco la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Da par suo, all’altro capo del Paese, Zingaretti dalla Calabria attacca frontalmente l’ex ministro dell’Interno: «Salvini è il peggiore a risolvere i problemi. E’ sbagliato, come fa la destra diffondere odio, stupidaggini, per raccattarevoti cavalcando la rabbia ed i problemi».

Bonaccini ha scelto di chiudere la sua campagna rendendo omaggio alla città simbolo della Resistenza con l’obiettivo di respingere la narrativa portata avanti da Matteo Salvini secondo cui il 26 gennaio resterà nella storia come un secondo 25 aprile, una seconda liberazione, non più dal nazifascismo, ma dal potere di quella sinistra egemone, che in questa Regione governa da sempre e che fino all’ultimo non ha disdegnato di utilizzarlo per i propri scopi, come evidenzierebbero i fatti denunciati dal sindaco di Jolanda di Savoia.

Sulle ricadute del voto emiliano romagnolo (e anche di quello calabro), il leader della Lega è certo: Matteo Salvini in questa sfida regionale si è speso a più non posso, più di ogni altro leader, considerando questo voto un test nazionale. Ribadendolo anche dal palco del comizio conclusivo: «vincere qui significa mandare a casa Conte, Di Maio e Zingaretti».

Anche Silvio Berlusconi ha sfidato apertamente il governo giallorosso: in caso di vittoria del centrodestra in Emilia Romagna «se non ci fossero le dimissioni e il governo continuasse a stare lì, l’Italia non sarebbe più una democrazia».

Convintissima sulle conseguenze nazionali delle regionali anche Giorgia Meloni: «io, Salvini e Berlusconi siamo pronti ad andare al governo. Se vinciamo, lunedì chiederemo le elezioni anticipate», annuncia dal palco ravennate, da dove ripropone il suo celebre tormentone di grandissimo successo “Io sono Giorgia, sono una donna…”.

Il palco ravennate del centrodestra ha consegnato anche l’immagine plastica di una coalizione coesa, orgogliosa dei simboli dei propri partiti, pronta a inanellare un nuovo successo dopo le europee dell’anno scorso e delle regionali in Umbria e in Basilicata, con un successo quasi certo in Calabria e molto probabile anche in Emilia Romagna. Dove sarà l’afflusso degli elettori a corroborare la vittoria, visto cinque anni fa, Bonaccini trionfò in un’elezione segnata da un minimo storico di partecipazione, appena il 37%. Adesso, i leader del centrodestra, invece, sono convinti che quanto sarà più alta l’affluenza alle urne, tanto saranno maggiori le loro possibilità di vittoria.

E nelle urne potrebbe pesare non poco la macchia che si è stagliata negli ultimi giorni di campagna elettorale sull’immagine di Bonaccini, quella della querelle del comune di Jolanda di Savoia, su cui la Procura di Bologna ha aperto un’inchiesta a carico del presidente della Regione uscente dopo la denuncia depositata dal sindaco Paolo Pezzolato. Un evento che ha irritato non poco Bonaccini, sempre attento a mantenere un profilo specchiato.

La sfida per la vittoria in Regione è circoscritta ai due principali candidati, Stefano Bonaccini del centrosinistra e Lucia Borgonzoni del Centrodestra, che viaggiano a notevoli lunghezze dagli altri cinque in lizza. Tra i due vincerà quello che avrà saputo meglio catalizzare il consenso popolare e utilizzare il sistema elettorale regionale che prevede il voto disgiunto tra la lista di partito e il candidato presidente. Un tema che nelle ultime ore è stato fatto proprio soprattutto dai 5 stelle che cercando di stoppare la vittoria di Borgonzoni chiedendo ai propri supporter «un voto alla lista M5s e al candidato presidente Bonaccini».

Stefano Bonaccini, modenese, 53 anni, iscritto al Pd, ha il compito di difendere il feudo dell’Emilia Romagna dal tentativo di conquista leghista. E’ il presidente uscente della regione Emilia Romagna, nonché alla guida della Conferenza delle Regioni. E’ sostenuto da Pd, ER coraggiosa (un raggruppamento della sinistra “governista”), Verdi, Volt, +Europa e una lista civica. Nella sua lunga carriera politica èstato assessore in comune a Modena, poi segretario nella sua città dei Ds, prima di guidare il Pd in Emilia Romagna.

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L’appello finale della candidata governatore del centrodestra, Lucia Borgonzoni.

Lucia Borgonzoni, leghista, bolognese, 43 anni, senatrice e sottosegretaria alla cultura del primo governo Conte è sostenuta da una coalizione composta da Lega, Forza Italia, Fdi, Cambiamo e due liste civiche: una che porta il suo nome e una che si richiama a “Giovani e ambiente”. Cresciuta in una famiglia di sinistra, è nipote di Aldo Borgonzoni, pittore partigiano e comunista, le cui opere si trovano in numerose case del popolo di Bologna. E’ entrata in consiglio comunale a Bologna, poi è stata candidata sindaco, portando, tre anni fa, Virginio Merola al ballottaggio. La sua campagna elettorale è stata in netta antitesi a quella di Bonaccini, puntando sulla denuncia delle liste d’attesa della sanità, sulla chiusura dei punti nascita, ma anche su tempi ambientali come la bonifica e sulla richiesta di un’alternativa dopo cinquant’anni ininterrotti di governo della sinistra.

La legge elettorale della regione Emilia Romagna prevede l’elezione diretta del presidente: risulterà eletto il candidato alla presidenza che prende il maggior numero di voti. Alla coalizione che sostiene il presidente eletto sarà assegnato un premio, in termini di consiglieri, per garantirgli la maggioranza in Consiglio regionale. Non ci sono né ballottaggi, né rischi di “anatre zoppe”: chi prende un voto in più degli avversari diventa presidente potrà governare senza ansie, a prescindere dal risultato delle liste che lo sostengono.

Gli elettori potranno votare solo per il candidato presidente; per il presidente e una lista collegata esprimendo fino a due preferenze a candidati consiglieri di genere diverso; solo per una lista (in questo caso il voto è automaticamente assegnato al candidato presidente collegato); oppure potranno votare in maniera disgiunta, ovvero per un candidato e per un partito collegato a un altro.

Dei 50 consiglieri in lizza, 40 saranno eletti in maniera proporzionale. Partecipano alla ripartizione i partiti che superano lo sbarramento del 3% o le coalizioni che superano il 5%. Degli altri 10, un seggio spetta, di diritto, al candidato presidenteche arriva secondo, mentre gli altri nove saranno assegnati alla coalizione che sostiene il candidato vincitore. A patto che la coalizione vincitrice non abbia già raccolto più di 24 seggi nel riparto proporzionale. In quel caso il premio di maggioranza è ridotto a quattro consiglieri, mentre gli altri cinque vengono assegnati alle forze di minoranza. Gli eletti saranno poi assegnati alle singole circoscrizioni (che coincidono con le province) proporzionalmente al numero di abitanti. Una volta determinato il numero dei seggi riservato a ogni lista, risulterà eletto chi ha preso più preferenze in quella circoscrizione.

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