Se nel 2018 sono stati 62.000 circa i cosiddetti “cervelli in fuga” che hanno lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero, per contro, 598.000 giovani in età compresa tra i 18 e i 24 anni hanno abbandonato precocemente l’attività scolastica, rischiando di finire ai margini della società, andando ad aumentare i cosiddetti “descolarizzati“.
Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, Paolo Zabeo, «perdere oltre 60.000 giovani diplomati e laureati ogni anno costituisce un grave impoverimento culturale per il nostro Paese, è ancor più allarmante che quasi 600.000 ragazzi decidano di lasciare gli studi anticipatamente. Un numero, quest’ultimo, 10 volte superiore al primo. Un problema, quello degli “descolarizzati”, che stiamo colpevolmente sottovalutando, visto che nei prossimi anni, anche a seguito della denatalità in atto, le imprese rischiano di non poter contare su nuove maestranze sufficientemente preparate professionalmente. Un problema che già oggi comincia a farsi sentire in molte aree produttive, soprattutto del Nord».
Sebbene negli ultimi anni ci sia stata una contrazione del fenomeno, un elevato numero di giovani continua a lasciare prematuramente la scuola, anche dell’obbligo, concorrendo ad aumentare la disoccupazione giovanile, il rischio povertà ed esclusione sociale. Una persona che non ha un livello minimo di istruzione, infatti, è in genere destinata per tutta la vita ad un lavoro dequalificato, spesso precario e con un livello retributivo molto basso, rispetto a quello cui potrebbe aspirare, almeno potenzialmente, se possedesse un titolo di studio medio-alto.
Le cause che determinano l’abbandono scolastico sono principalmente culturali, sociali ed economiche: i ragazzi che provengono da ambienti socialmente svantaggiati e da famiglie con uno scarso livello di istruzione hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola prima di aver completato il percorso di studi. C’è anche un fattore di genere: ad abbandonare precocemente la scuola sono più i maschi che le femmine.
Anche se fuga dai banchi di scuola sia in calo in tutta Europa, nel 2018 l’Italia si colloca al terzo posto tra i 19 paesi dell’Area dell’euro per abbandono scolastico tra i giovani in età compresa tra 18 e 24 anni. Se in Italia la percentuale è stata del 14,5% (pari a circa 598.000 giovani), solo Malta (17,4%) e Spagna (17,9%) presentano dei risultati peggiori. La media Ue si attesta all’11%. Tra il 2008 e il 2018 la contrazione del fenomeno in Italia è scesa del 5,1%, pressoché in linea con la media Ue (-5,3%).
A livello territoriale italiano sono le regioni del Sud a registrare i livelli più elevati di abbandono scolastico. Nel 2018 in Sardegna il 23% dei giovani ha lasciato la scuola prima del conseguimento del titolo di studio (diploma professionale, diploma di maturità, etc.). Seguono la Sicilia con il 22,1% e la Calabria con il 20,3%. Preoccupa la situazione di quest’ultima regione che rispetto a quasi tutte le altre è in controtendenza rispetto al dato relativo al 2008: l’abbandono scolastico in questi ultimi 10 anni è aumentato dell’1,8%. Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia (entrambe con il 8,9%, anche se bisogna differenziare tra un buon dato della provincia di Trento e quello decisamente peggiore della provincia di Bolzano), Abruzzo (8,8%) e Umbria (8,4%) sono le regioni più virtuose.
Nel complesso è il NordEst l’area che soffre meno di questo fenomeno sia per incidenza percentuale di abbandono scolastico (10,6%) che per il più basso numero di “uscite” premature
Stando alle indagini condotte dall’Unioncamere e dall’Anpal sarebbero stati oltre 1 milione i posti di lavoro di difficile reperimento nel 2018 a causa del disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro; sebbene in Italia la disoccupazione giovanile superi il 25% e le imprese denuncino molte difficoltà a reperire personale, soprattutto con competenze digitali.
Le cause sono molteplici ma, secondo l’Ufficio studi della Cgia, non va dimenticato che in tutti i paesi europei si sta verificando una forte polarizzazione del mercato del lavoro. Le imprese, infatti, se da un lato cercano con sempre maggiore insistenza del personale con elevata specializzazione tecnica–professionale (ingegneri elettrotecnici, analisti e progettisti di software, elettrotecnici, tecnici elettronici, installatori, manutentori, specialisti di saldatura elettrica, riparatori di apparecchiature informatiche, etc.), dall’altro necessitano anche di figure caratterizzate da bassi livelli di competenze e di specializzazione.
Ora, se il numero degli “descolarizzati” non è destinato a ridursi drasticamente, nei prossimi anni sarà sempre più difficile per le aziende trovare personale qualificato, anche perché si sta riducendo, a causa del calo demografico, la platea dei giovani che entreranno nel mercato del lavoro.
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