Big data, biologia e genomica scoprono come ottenere un nuovo farmaco da uno vecchio: un algoritmo sviluppato dal centro Cosbi dell’Università di Trento ha analizzato le proprietà molecolari di un vecchio farmaco usato contro alcuni tumori e ha visto che funziona anche contro la sindrome metabolica.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, evidenzia come l’approccio possa dare una grossa spinta al “riposizionamento”, nuova frontiera della ricerca farmacologica che ricava “nuovi” farmaci da quelli vecchi e già in uso per altre malattie.
«E’ un approccio già sperimentato in passato, divenuto realtà grazie alle nuove tecnologie che permettono un’analisi vasta, sistematica e veloce e che diventerà sempre più potente grazie ai massicci dati sul genoma umano» ha detto Enrico Domenici, presidente del Cosbi (Fondazione The Microsoft Research – University of Trento Centre for Computational and Systems Biology).
I ricercatori lo hanno testato per cercare nuove terapie per curare la sindrome metabolica, una condizione ad elevato rischio cardiovascolare caratterizzata dalla presenza di sovrappeso e diabete.
«Analizzando i dati di studi genetici precedenti condotti su centinaia di miglia di persone – ha spiegato Domenici – abbiamo individuato i geni mutati responsabili delle alterazioni nella sindrome metabolica». A questo punto i ricercatori hanno cercato nelle banche dati farmaceutiche le molecole già registrate in grado di interagire con questi geni. Infine, hanno cercato quale era il farmaco che interagiva con la maggiore quantità di geni coinvolti nella malattia e tra 1.000 farmaci analizzati il più efficace si è rivelato l’Ibrutinib, usato in origine per trattare alcuni linfomi e leucemie.
Il risultato è stato poi verificato al Dipartimento Cibio dell’Università di Trento, specializzato in biologia e genomica, su larve di zebrafish, osservando come il farmaco sia riuscito «a contrastare l’infiammazione che accompagna l’accumulo di lipidi – ha spiegato la responsabile dell’unità di ricerca del Dipartimento, Maria Caterina Mione -. I dati sono preliminari, perché sarebbero necessari studi più approfonditi e, in ultimo, test clinici approfonditi, ma evidenziano come il metodo possa dare una grossa spinta agli approcci di “drug repurposing”. Questi metodi permettono di accorciare i tempi per i pazienti perché testare l’efficacia di un farmaco già in commercio permette di saltare passaggi lunghi e impegnativi che sono necessari prima di immettere un nuovo prodotto sul mercato, dato che la tolleranza e la sicurezza sono già garantiti a monte».
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