Italiani oppressi dalle tasse? Gran parte dell’Irpef a carico del 12,28% dei contribuenti

Al netto del cosiddetto “bonus Renzi”, il 12,28% dei dichiaranti ha corrisposto il 57,88% di tutta l'Irpef versata per il 2017. Dalle anticipazioni dell’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, l’istantanea di un Paese al quale servirebbero più equità e più strumenti in grado di contrastare efficacemente l’evasione fiscale.  Di Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

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Italiani oppressi dalle tasse? Su 60,48 milioni di cittadini residenti in Italia a fine 2017 sono solo poco più di 30,67 milioni quelli che hanno versato almeno un euro di Irpef: secondo le dichiarazioni dei redditi rese nel 2018, con riferimento all’anno fiscale 2017, il 42,29%degli italiani non ha quindi reddito e, di conseguenza, non versa l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Dati che risultano ancora più eclatanti se si aggiunge che il 45,19% dei contribuenti – quelli cioè appartenenti alle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 euro lordi l’anno e da 7.500 a 15.000 euro lordi), per un totale di oltre 18,62 milioni di persone – paga solo il 2,62% di tutta l’Irpef.

Con questi presupposti, l’Italia può dunque dirsi davvero un Paese oppresso dalle tasse? Questa una delle (provocatorie) domande cui cerca di rispondere l’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali che, con particolare attenzione alle dichiarazioni individuali dei redditi ai fini Irpef e a quelle aziendali ai fini Irap, analizza su base annuale le entrate fiscali dello Stato, con l’obiettivo di ricavare indicatori utili a comprendere non solo la situazione socio-economica del Paese, ma anche l’effettiva sostenibilità del suo sistema di protezione sociale.

Per avere un ordine di grandezza, basterà del resto pensare alla sola spesa sanitaria, il cui costo pro capite è di circa 1.886,16 euro: per i primi due scaglioni di reddito, la differenza tra l’Irpef media versata e il solo costo della sanità ammonta a 47 miliardi di euro, che inevitabilmente è a carico degli altri contribuenti. E non va tanto meglio neppure se si guarda alla fascia che va dai 15.000 ai 20.000 euro di reddito lordo annuo, nella quale si collocano 5,806 milioni di dichiaranti, vale a dire circa 8,521 milioni di abitanti: in questo caso, l’imposta media annua è di 1.979 euro annui, che si riducono a 1.348 euro se rapportata agli abitanti, ancora una volta dunque insufficiente a coprire persino il costo pro capite della sola sanità.

Numeri alla mano, le anticipazioni dell’Osservatorio – che sarà presentato a Roma il prossimo 18 settembre nel corso di un convegno organizzato in collaborazione CIDA – Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità, sostenitrice anche dell’edizione 2019 della ricerca – si prestano dunque a sfatare alcuni luoghi comuni molto diffusi, anche nell’alveo della narrazione politica, sul delicato tema della pressione fiscale e della redistribuzione dei redditi tramite welfare.

Considerato il gettito al netto del “bonus Renzi”, di cui beneficiano circa 11,7 milioni di contribuenti, il “grosso” dell’Irpef è a carico del 12,28%, poco più di 5 milioni di soggetti che dichiarano redditi superiori ai 35.000 euro e che contribuiscono al 57,88% del gettito, contro il 2,62% versato dal 45,19%. Nel dettaglio, quelli con redditi lordi sopra i 100.000 euro (circa 52.000 euro netti) sono l’1,13%, pari a 467.442 contribuenti, che tuttavia pagano il 19,35% di tutta l’Irpef; tra 200.000 e 300.000 euro si trova lo 0,13% dei contribuenti, che versano però il 2,99% di Irpef e, infine, sopra i 300.000 euro lo studio individua, sulla base dei dati MEF e Agenzia delle Entrate, lo 0,093% dei contribuenti versanti che pagano però il 5,93%dell’Irpef. Sommando a questi contribuenti anche i titolari di redditi lordi superiori a 55.000 euro, si ottiene dunque che il 4,39% paga il 37,02%, che diventa per l’appunto il 57,88% di tutta l’Irpef, considerando anche i redditi sopra i 35.000 euro lordi.

Come puntualizzato dal Prof. Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e autore, insieme a Paolo Novati, della sesta edizione della ricerca, è indubbio che l’imposizione fiscale in Italia, tenuto conto del combinato di imposte dirette e indirette, possa ritenersi eccessiva, ma prima di tutto occorrerebbe forse domandarsi se è davvero così per tutti.

E, dati alla mano, il paradosso si fa in effetti evidente: volendo lanciare una provocazione, si potrebbe in effetti arrivare persino ad affermare che gli “oppressicui ridurre il carico fiscale sono in realtà gli appartenenti a questo sparuto 12,28%, sono spesso anche oggetto di proposte o provvedimenti che mirano a ulteriori tagli e prelievi. Un caso recente e significativo è quello riguardante le pensioni annuali sopra i 100.000 euro lordi le quali, già duramente colpite dal mancato adeguamento all’inflazione, sono a partire dal mese di giugno oggetto di un taglio vero e proprio, senza precedenti per percentuale e durata, che colpisce oltretutto rendite pensionistiche ampiamente supportate dal versamento di contributi nel corso della vita lavorativa e già ampiamente vessate da metodo di calcolo e tassazione.

Altre semmai le strade da intraprendere per migliorare il gettito fiscale, anche a vantaggio anche della sostenibilitàdel welfare state italiano, il cui finanziamento nel 2017 ha ad esempio richiesto, oltre a tutti i contributi sociali quando previsti, anche tutte le imposte dirette (Irpef, Ires, Irap e Isost) e un’ulteriore quota di imposte indirette. In particolare, secondo il professor Brambilla, la priorità dovrebbero essere innanzitutto soluzioni che incentivino l’emersione, vero tallone d’Achille del Paese insieme ai redditi da lavoro stagnanti: la proposta è dunque quella del “contrasto di interessi” tra chi compra la prestazione e chi la fornisce e, più precisamente, di un periodo di sperimentazione triennale nel corso del quale le famigliepossano portare in detrazione, entro un dato limite, il 50% delle piccole spese effettuate per la casa, per i figli o per la manutenzione di auto o moto, purché supportate da regolare fattura elettronica (incrocio codici fiscali prestatore-fruitore). Con vantaggi ovvi per la famiglia stessa che, grazie alla detraibilità, sarebbe incentivata a richiedere fatture e scontrini e ne trarrebbe un beneficio in termini di potere d’acquisto a prescindere dal proprio reddito di partenza ,ma anche e soprattutto per lo Stato, che potrebbe rientrare, almeno in parte, di Iva e contributi sociali evasi, segnando un punto importante nel contrasto al lavoro nero e al sommerso.

Del resto, proprio perché l’Italia è un Paese ad alta infedeltà fiscaleil “contrasto di interessipotrebbe rivelarsi molto più efficace della discussa “flat tax”: perché mai gli attuali evasori dovrebbero emergere per merito di una riduzione dell’Irpef del 15% circa, quando per beneficiarne dovrebbero comunque pagare il 24% di contributi sociali, l’Inail, l’Iva e sottoporsi ad altre incombenze fiscali cui ora sfuggono? Senza trascurare, infine, proprio il tema dell’equità: se è vero che già l’attuale “tassa piatta” discrimina i lavoratori dipendenti a favore degli autonomi e, tra quest’ultimi, tra quelli in crescita di attività e fatturato e quelli che viceversa crescono poco o niente, per forza di cose meno interessati a deduzioni e detrazioni, lo è altrettanto che con la “flat tax”, la situazione rischierebbe appunto di complicarsi ulteriormente. Basti considerare che il 50% degli italiani paga meno del 3% di tutta l’Irpef e che quelli che pagano le imposte, il 30% della popolazione (i redditi sopra i 35.000 euro), quasi non ne beneficerebbero, se non per lo scaglione tra i 35.000 e i 55.000 lordi.

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