Joshua Redman infiamma Treviso

Ottima esibizione del quartetto del sassofonista americano all’auditorium Stefanini di Treviso.  Di Giovanni Greto 

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Joshua Redman
Joshua Redman Quartet

L’unico concerto a pagamento dell’ottava edizione di Sile JazzSuoni senza frontiere”, ha richiamato una platea di appassionati nell’accogliente e dalla buona acustica auditorium Stefanini – preferito per apprensioni meteorologiche  alla piazza Rinaldi – per ascoltare l’ultimo progetto, “Still Dreaming” del tenorsassofonista Joshua Redman (1969), figlio d’arte del sassofonista Dewey (1931-2006).

Il quartetto si propone di celebrare “Old and new dreams”, “una delle più grandi band”, secondo la definizione data da Joshua Redman nel corso del set. Si è trattato di un quartetto colemaniano, ossia di musicisti “anziani” che avevano militato nel gruppo di Ornette ColemanCharlie Haden, Don Cherry, Dewey Redman, Ed Blackwell -, fondato nell’ottobre del 1976, attivo fino al 1982.

Nel repertorio approntato da Joshua Redman, compaiono brani di quel quartetto, di Ornette Coleman ed originali. In un unico set di novanta minuti si sono ascoltati otto pezzi, più un bis preteso con gran rumore da un pubblico scatenato, sempre più vociante e caloroso nei riguardi dei musicisti, il quale ha apprezzato i numerosi assolo, equamente ripartiti tra il leader, il cornettista Ron Miles, il contrabbassista Scott Colley e il batterista Dave King. Dopo l’iniziale “Blues for Charlie”, di Joshua, dedicato a Charlie Haden, ecco “New Year” di Colley: un tema senza tempo, con una o due misure di sola batteria. Alla fine dell’esposizione, una partenza velocissima delle improvvisazioni – nell’ordine sassofono, cornetta, contrabbasso e batteria – ognuna delle quali veniva commentata da ululati di approvazione.

La terza composizione, “Guinea” di Don Cherry, è contenuta nell’album “Old and new Dreams” del 1979. Dave King, dopo aver coperto con un asciugamano il timpano del drum set, vi appoggia sopra un campanaccio, utile a definire un tempo afro. Al solo del tenore segue quello della cornetta, in parte in duo con la batteria, con il rullante privato della cordiera. Di nuovo, un brano sempre da quell’album, “Open or Close”, composto da Ornette Coleman. Molto ritmato e veloce, è arricchito dai solo di ognuno, con l’utilizzo dell’archetto per il contrabbasso. Una composizione velata di mistero, la seconda di Colley, è “Faith and Miracles”, iniziata da un duetto tra il contrabbasso e la cornetta. Quest’ultima, ultimato il suo fraseggio, viene sostituita dal sax tenore. Il suono dei fiati è molto caldo, finchè, ad un certo punto, contemporaneamente all’abbandono delle spazzole, in favore delle bacchette, subentrano suoni striduli, quasi squittii animaleschi, finchè il brano decresce dinamicamente, pur mantenendo un’interessante melodicità.

Inizia in solitudine Joshua Redman, per esporre il proprio brano “Bad Algorhithm”, poi si fa da parte per lasciare spazio ai colleghi. Ridiventa protagonista nell’improvvisazione, per la quale il pubblico gli tributa delle calorose ovazioni. Ha l’andamento di un climax ascendente “Playing”, di Charlie Haden, l’ultimo brano in scaletta, esposto inizialmente soltanto dai fiati. Ma il pubblico non ne vuol sapere di lasciare la sala ed ecco allora una versione non comune di uno standard plurinterpretato, “All the things you are”, morbido e melodico, con improvvisazioni ben pensate, mentre il contrabbasso alterna l’archetto all’accompagnamento con le dita. I musicisti girano intorno al tema, quasi per non farlo riconoscere, grazie anche ad armonizzazioni diverse.

Il gruppo si è fatto apprezzare per l’affiatamento  ed un impegno non comune, come dovrebbe succedere sempre e, cosa assai importante, comunicando la voglia e la gioia di suonare assieme.

Tecnicamente convincenti, presi singolarmente, i musicisti sono apparsi ognuno con il proprio stile elegante, ad eccezione forse di Dave King, che però ha suonato con maggiore intensità ed attenzione, e facendo meno caciara rispetto a quando si esibisce con i Badplus.

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