Autonomia, a Roma ancora una fumata nera

Continua lo stallo tra una Lega sempre più spompata e un M5s con i ceppi che ora lancia i “livelli essenziali di prestazione”. I voti di Veneti e Lombardi pronti ad andare in fumo. 

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Cvd, come volevasi dimostrare: questa formuletta tipica della soluzione dei problemi matematici può essere trasposta per quanto sta avvenendo nelle stanze di Palazzo Chigi a Roma che si sta ogni giorno di più trasformando in un gigantesco palazzo delle nebbie per quell’autonomia per Veneto e Lombardia votata a furor di popolo ormai oltre un anno fa, cui s’è aggiunta anche l’Emilia Romagna. Autonomia che nemmeno il ministro preposto, la vicentina Erika Stefani, riesce a schiodare, nonostante le promesse di partenza.

Ora, a rallentare nuovamente il tutto nella continua sceneggiata napoletana che gli esponenti del M5s stanno recitando a soggetto si paventa il rischio di avere un Paese diviso in due (di fatto lo è già), con differenti sistemi scolastici e sanitari e «inaccettabili differenze nel trattamento tra i cittadini”, tant’è che tra le menti pentastellate è scaturita l’ennesima trovata di assicurare a tutti i cittadini, prima di mollare l’autonomia per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, i “Lep”, livelli essenziali di prestazione. Peccato solo che da almeno trent’anni ai cittadini di alcune regioni del Centro Sud d’Italia i “Lepsiano di fatto negati da una frotta di amministratori pubblici incompetenti ed inetti, appartenenti a tutto l’arco costituzionale, che negli ultimi due anni hanno raggiunto vette d’inconsistenza e di pressapochismo che si ritenevano impossibili da concepire, tant’è che la scuola e la sanità di queste realtà è anni luce distante da quella delle migliori realtà d’Italia e d’Europa. Guarda caso, quelle migliori realtà d’Italia coincidono con quelle regioni che hanno chiesto maggiore autonomia, avvalendosi di una riforma costituzione legittimamente votata dal Parlamento a trazione centro sinistra e fatta propria da governi locali di tutti i colori, di centro destra che di sinistra.

Ora che questa evidente, storica differenza esistente tra le regioni d’Italia venga utilizzata come grimaldello per rimandaresine die la maggiore autonomia o, peggio, per annacquarla sostanzialmente con il trucchetto di portare le intese raggiunte tra stato e regioni all’esame del Parlamento dove si scatenerà l’assalto alla diligenza è una cosa che lascia basiti.

Ben poco valgono le riassicurazioni di Stefani, buone più a dare coraggio a sé stessa e a nascondere la tragica realtàdell’istradamento dell’autonomia per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sul binario morto. «Il Parlamento deve essere principe e padre della riforma e sarà prerogativa dei presidenti della Camera e del Senato decidere quali saranno le modalità di discussione della riforma sulle Autonomia – dichiara il ministro Stefani -. Il mio auspicio è che non ci siano dilazioni e farraginosità ma confido nelle Camere». Illusa.

Fa fede di fiducia anche il leader leghista Matteo Salvini, che dalla tolda della posizione di vice premier vicario dello sgarrupato governo di Giuseppe Conte vede quel 34% incassato al voto delle Europee solo qualche settimana fa già scivolare nella palude pentastellata: «il vertice sull’autonomia? E’ andato bene». Mentre l’altro vicepremier, quello che ha nel suo curriculum solo l’essere stato garzone allo stadio partenopeo e vicepresidente della Camera, tal Luigi Di Maio, rilancia la palla nel campodell’avversario a porta vuota: «sull’autonomia bisogna fare altri incontri, ci sono altre cose da sistemare. Per quanto mi riguarda qualunque autonomia deve contemplare i “livelli essenziali di prestazione” (Lep) e il fondo di perequazione, ossia che qualunque autonomia si dà alle regioni che giustamente la richiedono non solo deve andare a discapito delle altre regioni».

Mentre i vertici nazionali della Lega fanno buon viso a cattivo gioco, dalla base sale sempre più impetuoso il malumore, a stento nascosto dai governatori delle tre regioni in anelito autonomistico. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, gira la frittata tentando di non scottarsi: «il fatto che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, abbia avocato a sé il dossier mi fa ben sperare», dichiarando di aspettare la bozza che produrrà il governo per valutarla con molta attenzione e disponibilità al confronto, ma mettendo un paletto: «di certo, però, non firmerò mai un accordo al ribasso che farebbe portare a casa una finta autonomia. Mi auguro che la proposta non prenda una piega imbarazzante. I cittadini guardano e giudicano».

Stremato dal tira e molla pentastellato pure il presidente dell’Emilia Romagna, il Dem Stefano Bonaccini: «noi siamo fermi alla posizione che l’Emilia Romagna ha sottoposto al Governo da oltre un anno. Siamo in presenza di continui rinvii, ogni settimana ci dicono che quella successiva sarà buona. E’ passato un anno e comincio anche a essere stanco di dovere continuare a discutere delle stesse cose».

Pure il governatore lombardo Attilio Fontana rispedisce al mittente la richiesta pentastellata del fondo di perequazione tra le regioni lanciato dal ministro per il Sud, la grillina Barbara Lezzi, con il quale sul tavolo «non ci sono i presupposti per l’intesa. Se sono queste le condizioni vuol dire che è meglio cambiare argomento, cambiare discorso. Si è partiti dicendo che noi andavamo ad ammazzare il Sud. Noi abbiamo dimostrato che andremmo a trattenere solo ciò che lo Stato spende già oggi: diciamo di essere più bravi dello Stato e di risparmiare qualche soldino. Allora ci dovremmo efficientare per alimentare le inefficienze altrui? Se voi lo ritenete giusto…». Difficile dargli torto: sarebbe l’ennesimo smacco ai danni di chi produce efficientemente ricchezza per mantenere la greppia e le manomorte di chi non sa fare e quando tenta di fare, sbaglia.

Sul tema dell’Autonomia la Lega rischia e molto della propria credibilità, anche se i sondaggi continuano a correre verso la crescita, ma nelle urne per le sempre più probabili elezioni politiche anticipate le cose potrebbero cambiare decisamente, soprattutto se Salvini si dovesse presentare agli elettori del Nord senza avere portato a casa quell’autonoma votata da milioni di cittadini.

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