Politica e media, quasi tutti, sono concordi: siamo un Paese “strozzato” dalle tasse: riduzione delle aliquote, flat tax, aumentodelle agevolazioni o della no tax area, le tumultuose proposte per porre rimedio al problema. Ma è davvero così? Dalle elaborazioni effettuate dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati MEF e Agenzia delle Entrate non sembrerebbe proprio.
Un primo dato: su 60,48 milioni di cittadini residenti a fine 2017, quelli che hanno presentato la dichiarazione dei redditi (i contribuenti dichiaranti) sono stati 41.211.336, ma quelli che versano almeno un euro di Irpef sono 30.672.866: ne possiamo dedurre che il 42,29% degli italiani non ha reddito e, quindi, non paga nulla di Irpef. Non è certo oppresso!
Ma un altro dato è più eclatante: i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 euro lordi l’anno e da 7.500 a 15.000 euro) sono 18.622.308, pari al 45,19% del totale e pagano solo il 2,62% di tutta l’Irpef (2,82% nel 2016). A questi contribuenti corrispondono 27,331 milioni di abitanti, i quali, considerando anche le detrazioni, pagano in media circa 157,9 eurol’anno e, di conseguenza, si suppone anche pochissimi contributi sociali: con molte probabilità, dei futuri pensionati assistiti dalla collettività.
Tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito lordo annuo dichiarato (17.500 euro la mediana) troviamo 5,806 milioni di contribuenti pari a 8,521 milioni di abitanti. Questi contribuenti pagano un’imposta media annua di 1.979 euro, che si riduce a 1.348 euro se rapportata agli abitanti; anche questa fascia di reddito paga un’Irpef insufficiente per coprire il costo pro capite della sola spesa sanitaria. I 1.979 euro di Irpef potranno sembrare tanti, ma se la politica (e i media) facessero ragionare la gente anziché dire che le tasse sono troppo alte, farebbero comprendere che una gran parte degli italiani è già oggi a “carico” di altri concittadini.
Prendiamo ad esempio la spesa sanitaria nazionale, che costa pro capite circa 1.878,16 euro: per i primi due scaglioni di reddito la differenza tra l’Irpef media versata e il solo costo della sanità ammonta a 47 miliardi che sono a carico degli altri contribuenti; e qui si parla appunto della sola sanità, senza considerare tutti gli altri servizi forniti dallo Stato e dagli enti locali, di cui pure beneficiano, ma che qualche altro contribuente si dovrà accollare. A questa cifra bisogna poi sommare altri 2,52 miliardi per i cittadini con redditi tra i 15.000 e i 20.000 euro che pagano un’imposta media di 1.348 euro anno. Il totale fa circa 50 miliardi che dovranno pagare i cittadini che dichiarano redditi dai 35.000 euro in su.
Una cosa è certa: per lo meno quasi la metà della popolazione italiana non può certo lamentarsi per le imposte in quanto non le paga proprio; a questi si può poi aggiungere quel 14% che paga imposte insufficienti per pagarsi la sola sanità.
Allora, chi paga le imposte in Italia?
Considerato il gettito Irpef al netto del “bonus Renzi”, di cui beneficiano 11,7 milioni di contribuenti per un costo di 9,5 miliardi, pari a 164,701 miliardi di euro (147,967 pari al 89,84% del totale, per Irpef ordinaria, 11,944 miliardi per l’addizionale regionale pari al 7,25% e 4,790 miliardi pari al 2,91% del totale, per l’addizionale comunale), il “grosso” dell’Irpef è a carico del 12,28% di contribuenti, poco più di 5 milioni di soggetti che dichiarano redditi da 35.000 euro in su e che pagano ben il 57,88% contro il 2,62% pagato dal 45,19% di dichiaranti, i “ricchi” cui Di Maio non darebbe mai la “flat tax” ma cui taglia le pensioni.
In dettaglio, quelli con redditi lordi sopra i 100.000 euro (per inciso, il netto di 100.000 euro è pari a circa di 52.000 euro netti, 4.000 al mese su 13 mensilità) sono l’1,13%, pari a 467.442 contribuenti, che tuttavia pagano il 19,35% di tutta l’Irpef; tra 200.000 e 300.000 euro di reddito si trova lo 0,176%, circa 59.000 contribuenti che pagano il 2,99% dell’Irpef; sopra i 300.000 euro solo lo 0,093% dei contribuenti versanti, circa 38.227 persone che pagano però il 5,93% dell’Irpef; sommando a questi contribuenti anche i titolari di redditi lordi superiori a 55.000 euro, otteniamo che il 4,39% paga il 37,02% dell’Irpef (36,53% nel 2016) che diventa il 57,88% considerando anche i redditi sopra i 35.000 euro lordi.
Guardando i dati, verrebbe da dire che forse gli “oppressi” cui ridurre il carico fiscale sarebbe proprio questo sparuto 12,28% di popolazione che, peraltro, non beneficia di nessuna agevolazione (ticket sanitari, trasporti e così via) e spesso, per motivi di lavoro, si paga pure la sanità privata.
Considerando poi che è difficile credere che quasi 36 milioni di abitanti vivano con redditi inferiori ai 20.000 euro lordi l’anno, si dovrebbe immaginare una politica fiscale che incentivi l’emersione attraverso il contrasto di interessi tra chi compra la prestazione e chi la fornisce. Per esempio, in via sperimentale per un triennio, consentire di dedurre ogni anno almeno il 50% di tutte le spese sostenute dalle famiglie, Iva compresa, per lavori di casa, meccanici, assistenti familiari e altro: questo “contrasto di interessi” può garantire – a differenza delle forme di tassazione che non prevedono la possibilità di deduzioni e detrazioni e che, quindi, incentivano a non chiedere scontrini e fatture che tanto non servono, poiché indeducibili – addirittura un aumento del gettito, favorendo al contempo la famiglia, che beneficerebbe di una deduzione importante (pari a una quattordicesima mensilità), mentre l’enorme schiera di evasori o elusori si ritroverà a pagare tasse e contributi, con grande sollievo di artigiani e lavoratori autonomi onesti e che pagano le tasse.
Cosa succede invece? Assistiamo a un taglio vistoso delle pensioni di quello sparuto 1% di popolazione che nella vita attiva ha dichiarato oltre 100.000 euro di reddito, un “ricco” da colpire, e a un ridotto adeguamento delle pensioni sopra i 1.600 euro lordi al costo della vita; per contro, si è deciso di rimborsare tutti quei “poveri” con un patrimonio mobiliare, che dovrebbe essere portato addirittura a 200.000 euro, che hanno investito in titoli o azioni di banche fallite, magari senza neppure chiedere loro come li hanno fatti quei soldi. Due pesi e due misure che, proprio perché “non eque”, alla fine presenteranno un conto salato: peccato che comunque a pagare in termini economici saremo sempre noi.
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