“Dorilla in Tempe” di Antonio Vivaldi in scena al teatro Malibràn di Venezia

Piacevoli pagine musicali per conoscere meglio l’opera barocca. Di Giovanni Greto

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dorilla in tempe

La Fondazione Teatro La Fenice prosegue il percorso di riscoperta del Vivaldi operistico con “Dorilla in Tempe“, iniziato con successo la scorsa stagione con l’allestimento dell’“Orlando Furioso”, secondo un progetto che vedrà ogni anno la produzione di un’opera lirica dell’autore veneziano.

Il secondo titolo, “Dorilla in Tempe”, è andato in scena con quattro repliche al Teatro Malibràn. Si tratta, secondo la definizione di Antonio Maria Lucchini (1690 circa – dopo il 1730), anch’egli veneziano, responsabile del libretto, di un melodramma eroico-pastorale in tre atti, ambientato sullo sfondo della valle di Tempe. E’ l’antico nome di una gola a nord della Tessaglia, una regione che nella Grecia antica era dedicata al culto di Apollo, il quale amava questo “locus amoenus” e lo frequentava anche in compagnia delle Muse.

La vicenda ricorda a grandi linee quella di Andromeda soccorsa da Perseo. Motore dell’azione è il dio Apollo, punito da Giove a servire come pastore Nomio, il quale si innamora di Dorilla, figlia del re Admeto, già innamorata di un altro pastore, Elmiro. Per placare il serpente Pitone, un mostro marino che divora vergini innocenti, minacciando l’intera Tessaglia, il pavido e crudele sovrano non esita a sacrificare la figlia. Quando tutto sembra ormai perduto, Dorilla viene salvata da Nomio/Apollo, che uccide il mostro e come ricompensa pretende la sua mano. Dorilla non ci sta e fugge con l’amato Elmiro. Gli amanti vengono però catturati e per il pastore scatta la condanna a morte. A questo punto interviene Apollo, “deus ex machina”. Svela la sua identità e benedice sia le nozze dei fuggiaschi, sia quelle tra la ninfa Eudamia, innamorata non corrisposta di Elmiro, e il pastore Filindo, di lei tristemente innamorato, sempre fedele, benché non corrisposto.

L’opera è stata composta nel 1726, a metà della carriera operistica di Antonio Vivaldi (Venezia, 4 marzo 1678 – Vienna, 26 o 27 luglio 1741), che si suole far iniziare nel 1713 e concludere nel 1739, l’anno della partenza del compositore per Vienna. Dopo il debutto il 9 novembre 1726 al teatro Sant’Angelo, è stata ripresa e modificata fino alla versione rappresentata il 12 febbraio 1734 ancora nel medesimo teatro e che è la stessa del Malibràn.

E’ l’unica versione esistente, in virtù del ritrovamento a inizio Novecento della partitura, oggi conservata nella raccolta Mauro Foà della Biblioteca Universitaria di Torino. Rispetto alla prima versione, quella del 1734 è più precisamente un “pasticcio”. «Il “pasticcio” – scrive nel programma di sala lo studioso e catalogatore Federico Maria Sardelli – non significava, agli occhi e alle orecchie del pubblico settecentesco, un’opera di minor conto. Poteva trattarsi di un lavoro sontuoso e assai attraente dal punto di vista dell’intreccio e dell’allestimento», come “La Dorilla”, e non “Dorilla in Tempe”. «Così si legge sul manoscritto autografo. Perché tutte le opere di Vivaldi portano in testa l’articolo determinativo», scrive ancora Sardelli.

Rispetto al 1726, Vivaldi mantiene i cori, i recitativi e la sinfonia, scritti di suo pugno, ma inserisce accanto alle sue, alcune arie di compositori di scuola napoletana che andavano per la maggiore – Johann Adolf Hasse, Leonardo Leo, Geminiano Giacomelli, Domenico Sarro – con l’intenzione, da buon impresario, di raggiungere il successo al botteghino.

Nella produzione veneziana, i personaggi maschili, non esistendo più i castrati (anche se Vivaldi affidò un personaggio su tre a una voce femminile), responsabili allora delle parti a registro acuto – sono interpretati da cantanti donne, tutte nel registro di mezzosoprano: Lucia Cirillo, nella parte di Elmiro; Veronique Valdès, nei panni di Nomio/Apollo; Rosa Bove in quelli di Filindo. L’esperta mezzosoprano Manuela Custer impersona Dorilla, mentre la giovane contralto veneziana Valeria Girardello è la ninfa Eudamia, che ricorda nella scelta dei costumi il personaggio cinematografico di Jessica Rabbit. L’unica voce maschile è quella di Michele Patti, baritono, nei panni di Admeto.

Come per l’Orlando, il maestro direttore e concertatore, nonché clavicembalista, è l’esperto Diego Fasolis, celebre per la sua ensembleI Barocchisti”, che in questa occasione dirige un quintetto in gamba composto da lui stesso al clavicembalo; Andrea Marchiol, clavicembalo e organo; Alessandro Zanardi, violoncello; Fabiano Merlante, tiorba e chitarra; Giovanni Battista Graziadio o Elena Bianchi, fagotto. La regia, come per l’Orlando, è di Fabio Ceresa, che, nell’intervista contenuta nel programma di sala, si è detto contento di aver potuto lavorare nuovamente con lo scenografo Massimo Checchetto e il costumista Giuseppe Palella (gli stessi dell’ “Orlando”) “«che mi hanno accompagnato in questa folle fantasmagoria recuperando quell’estetica dell’abbondanza, quell’immaginario di macchina teatrale, quella ricchezza visiva che abbaglia gli occhi e che desideriamo ritrovare quando si apre il sipario su un’opera di Vivaldi».

Oltre ai cantanti, sul palco agiscono numerosi mimo-ballerini della Fattoria Vittadini. Alcuni, con la treccia, indossano tuniche verdi e usano una maschera protettiva a coprire naso e bocca. Ricordano il personale sanitario delle sale operatorie ospedaliere, comunicando un’inquietante sensazione di asetticità.

Come sempre, egregia, la prova del Coro del Teatro La Fenice, preparato dal Maestro Claudio Marino Moretti.

Nell’opera sono presenti una serie di autocitazioni – tratte dalla raccolta “Il cimento dell’armonia e dell’invenzione”, pubblicata nel 1725 ad Amsterdam – funzionali all’idea dello scorrere delle stagioni, ripresa dal regista Fabio Ceresa. Dopo il tema della Primavera, ascoltato nell’Ouverture, nello svilupparsi della trama si ascoltano brevi inserti tratti dagli altri concerti stagionali (estate, autunno, inverno), eseguiti all’apertura di ogni atto.

Forse due ore e trentacinque minuti sono un po’ troppe per commentare un’esile e per nulla originale intreccio. Tuttavia, arie e recitativi col passare del tempo crescono in intensità e dimostrano la bravura di un compositore che non disdegna di inserire le melodie e gli stili più in voga del momento per ottenere un confortevole successo di pubblico.

Puntualmente la platea applaude ad ogni conclusione dell’aria interpretata, mentre al calar del sipario si è ripetuta lungamente per manifestare il gradimento sia per lo spettacolo che per gli interpreti vocali, strumentali e figurativi.

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