Le clausole di salvaguardia, introdotte inizialmente con il Decreto Legge 98/11 dal Governo Berlusconi, prevedono un aumento futuro e automatico di entrate tributarie nel caso in cui non vengano individuate altre misure per rispettare gli obiettivi di bilancio.
Inizialmente sollecitate dalle istituzioni europee all’Italia per garantire il rientro prospettico del deficit di bilancio, le clausole disalvaguardia permisero di rassicurare i mercati finanziari circa la discesa del deficit e del debito pubblico. Rappresentavano un modo per includere da subito nei saldi di bilancio risparmi provenienti da operazioni complesse la cui attuazione puntuale non poteva essere effettuata nell’immediato e il cui impatto sui conti pubblici era incerto.
Le clausole di salvaguardia introdotte per gli anni tra il 2012 e il 2021 avrebbero dovuto garantire un maggior gettito tendenziale pari a 64,8 miliardi di euro, 55,6 miliardi solo relative al 2019. Di questi, poco più della metà si è tradotto in un miglioramento del deficit tendenziale (circa 28 miliardi), per effetto dell’attivazione delle clausole e della loro compensazione con altre maggiori entrate e minori spese. Restano ancora attivabili 28,8 miliardi tra il 2020 e il 2021, stando alla clausola di salvaguardia IVA attualmente in vigore, introdotta dal Governo Renzi e modificata ben sei volte da dicembre 2014, da ultimo con la Legge di Bilancio per il 2019 del Governo Conte.
Il crescente ricorso alle clausole di salvaguardia e la loro sterilizzazione in larga parte a deficit ne hanno vanificato le potenzialità, creando incertezza sui conti pubblici italiani, tanto che la Commissione europea dalle previsioni formulate a maggio 2015 ha deciso di non includerne più gli effetti.
Lo studio condotto da Alessandro Fontana, Andrea Montanino e Lorena Scaperrotta del Centro Studi di Confindustria analizza a fondo lo strumento e propone alcune soluzioni di medio periodo.
Nel link è possibile leggere e scaricare il documento integrale.
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