“Brodsky/Baryshnikov” al Teatro La Fenice

Sulla scena l’incontro fra danza e poesia.

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Brodsky/Baryshnikov

Di Giovanni Greto

Considerato uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi, Mikhail Baryshnikov (Riga, Lettonia, 1948), in fuga dall’Urss, si era stabilito nel 1974 all’American Ballet Theatre a New York come primo ballerino. E proprio in quell’anno conobbe ad una cena il poeta Iosif Brodskij (Leningrado 1940 – New York 1996), secondo la grafia russa, modificata in Joseph Brodsky dopo essersi stabilito negli States nel 1972, espulso dall’Urss.

Tra i due nacque un’amicizia duratura – Brodsky coniò due nomignoli, coi quali si chiamavano: Mysh (topo, in russo) per Mikhail, “gatto Joseph”, per sé – che forse aiutò la carriera del coreografo. «Dopo esser entrato nella mia vita – scrive Baryshnikov nella brochure di presentazione – Joseph divenne non solo un amico, ma in qualche misura anche un mentore, qualcuno che mi aiutò ad affrontare problemi quotidiani ed ardui dilemmi morali. Egli divenne per me una specie di ‘bussola navale’, anche se su molte cose non andavamo d’accordo: lui era un conservatore, nell’arte come nella vita, mentre io sarei un progressista. Eppure, se ho acquisito qualche principio morale, ciò è avvenuto grazie a lui».

Alla Fenice l’artista ha portato “Brodsky/Baryshnikov”, che debuttò il 15 ottobre 2015 al New Riga Theatre, coproduttore dello spettacolo assieme alla Baryshnikov Produktion. L’azione scenica si svolge in un padiglione Art Noveau, una costruzione semicircolare a vetri e fili elettrici scoperti che ogni tanto lanciano fumo e scintille, la quale probabilmente funge da anticamera ad una villa, che dà verosimilmente su un giardino, e in due panchine esterne appoggiate alla facciata. In una vi è un registratore a bobine, nell’altra l’unico interprete appoggia una sveglia, una bottiglia di liquore e alcuni libri. Tutto viene estratto da  una misteriosa valigia. Più che di danza si potrebbe parlare di teatro/danza. L’attore infatti per tutta la durata della piéce (circa 90 minuti) recita quasi ininterrottamente in russo una selezione di poesie dell’amico di lunga data, alternandosi con una voce registrata, probabilmente di Brodsky stesso, che si presume possa essere contenuta nella bobina del vecchio apparecchio. Lo fa avvolto dal silenzio, in un’atmosfera tenebrosa, seduto o coricato sulle panchine. Vestito in un elegante completo grigio, col trascorrere del tempo, si spoglierà fino a rimanere a piedi nudi e con i pantaloni tirati su fino al ginocchio. I sopratitoli italiani scorrono inesorabili, per cui lo spettatore se li legge sempre rischia di perdere la sottile armonia dei gesti.

Concepito e diretto da Alvis Hermanis, noto regista lettone del New Riga Theatre, lo spettacolo si configura dunque come un commovente viaggio nel profondo delle viscerali e complesse composizioni del poeta, premio Nobel per la letteratura nel 1987. Baryshnikov, di concerto con il regista, ha tentato di esprimere il significato dei versi non soltanto per via orale, ma anche mediante il linguaggio del corpo, nei pochi momenti in cui si muove all’interno del padiglione, traendo ispirazione dal Kabuki, dal flamenco, dagli stilemi del Butoh, il teatro danzato giapponese e dall’estetica della scultura greca antica.

Uno spettacolo intimo, elegante, di un artista che forse risente ancora della scomparsa di un amico, che proprio la sera prima di morire, per un infarto, lo aveva cercato al telefono per augurargli un buon compleanno. Quando le luci si abbassano e ritorna l’illuminazione in sala, la platea si alza di scatto per tributare un lungo, ininterrotto applauso, ad un artista leggendario, capace di comunicare con gli astanti, semplicemente attraverso lo stare sul palcoscenico.

In un saggio inserito nell’antologia “Da quelli che non mi dimenticano”, pubblicata nel 2015, nella quale poeti, artisti, interpreti, di Russia e d’Occidente scrivono ricordi su Brodsky e gli dedicano poesie, così conclude il suo intervento Mikhail Baryshnikov: «sono passati 17 anni dalla sua morte, ma posso ancora sentire su di me lo sguardo fermo di Joseph, posso ancora avvertire la sua presenza spirituale: un’impressione che spesso può farsi piuttosto intensa. Mi sono sempre considerato una di quelle persone su cui egli ha profuso cure e attenzioni, e che per questo hanno davvero goduto di una singolare fortuna».