Per l’export italiano è fondamentale poter contare su una rete diplomatica efficiente: all’Istituto Affari Internazionali (IAI) è stato presentato lo studio di Unioncamere del Veneto e di Cgia di Mestre sulla Farnesina e la sua rete estera in relazione al tessuto produttivo nazionale: si è trattato del primo lavoro multisettoriale sull’argomento che ha preso in considerazione la consistenza, anche rispetto agli altri Paesi, della presenza istituzionale italiana all’estero.
Nell’introdurre la presentazione, il presidente dello IAI, Amb. Ferdinando Nelli Feroci, ha evidenziato che «lo studio non solo giunge in un momento di significativi mutamenti geopolitici che richiedono sempre più impegno e investimenti in politica estera», ma ha anche sottolineato la «grave e crescente contraddizione tra l’attuale dimensione della Farnesina e il suo crescente ruolo vitale per il sostegno alle esportazioni, specie per le PMI, e per l’assistenza alla collettività italiana all’estero, oggi pari a circa 5,3 milioni di persone rispetto ad esempio agli 1,8 milioni della Francia. Tale contraddizione è resa più evidente dal confronto con le risorse finanziarie e di personale di cui dispongono altri Paesi europei, come si evince nello studio».
Le risorse destinate alla Farnesina per le sue attività istituzionali (escludendo gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo e finanziamenti obbligatori come ad esempio i contributi all’ONU), sono oggi pari allo 0,10% del bilancio dello Stato (rispetto allo 0,14% del 2011), corrispondente allo 0,005% del PIL, in costante diminuzione e in controtendenza rispetto alle esigenze del “Sistema Paese”. Anche dal punto di vista della dotazione di risorse umane, negli ultimi anni si è assistito a un calo sensibile, dalle 4.852 unità di personale di ruolo del Maeci del 2008 si è passati alle 3.825 unità del 2016.
Da parte del direttore del Cgia di Mestre, Renato Mason, è stato, quindi, sottolineato che «la natura diffusa e internazionale della nostra imprenditoria richiede che l’azione di sostegno all’internazionalizzazione sia sostenuta da strutture sempre più specializzate, efficaci e con maggiori risorse, in quanto per coprire più bisogni occorre rivolgersi contemporaneamente a molti più soggetti. In Germania, per assistere il 50% delle esportazioni (che a sua volta è superiore del 50% del totale delle esportazioni italiane) è sufficiente lavorare con sole 50 imprese; per arrivare alla stessa percentuale in Italia si lavorerà con quasi 1.000 imprese, più piccole e con richieste di sostegno, quindi, ben più articolate. Ciò ha tuttavia una ricaduta molto elevata sulle esportazioni che costituiscono il 30,4% del PIL italiano e un incremento di 6-7 punti percentuali è un obiettivo tutt’altro che irrealistico».
«Già ora – ha proseguito Mason – la stima, per difetto, del valore generato dall’azione della Farnesina in favore delle imprese rappresenta, secondo un recente studio sull’impatto della diplomazia economica realizzato dalla Prometeia, l’1,4% del PIL, che corrisponde ad un valore aggiunto di oltre 21 miliardi di euro, sostenendo oltre 230 mila occupati e generando entrate fiscali per 7 miliardi. I margini di miglioramento sono significativi alla luce del tessuto produttivo italiano, dove pochissime sono le imprese che possono disporre di una propria “diplomazia aziendale” in grado di operare con i Governi esteri e le istituzioni internazionali, tra cui l’UE dove si decidono le regole del mercato interno comunitario. Tutte le altre imprese devono fare un affidamento comparativamente maggiore sulla presenza istituzionale all’estero e in particolare sulla rete diplomatico-consolare».
«A differenza dei nostri principali partner europei – segnala il presidente di Unioncamere Veneto, Mario Pozza – le aziende italiane che esportano presentano delle dimensioni contenutissime. Si pensi che il 93,7% delle 195.000 imprese che vendono i propri prodotti all’estero hanno meno di 50 addetti. Realtà piccole e micro che possono contare solo sulle proprie forze e sulla qualità dei propri manufatti. A differenza delle imprese produttive più strutturate che, invece, possono contare su filiali commerciali o catene distributive anche fuori confine, le piccole sono aziende che hanno bisogno di strutture in grado di studiare i nuovi mercati, di stabilire i contatti in loco e di promuovere anche le politiche e i servizi post-vendita. Specificità che la diplomazia economica deve continuare ad offrire perché la qualità del servizio fino ad ora erogato, grazie alle risorse umane a disposizione, presenta livelli di eccellenza non riscontrabili altrove».
Dal raffronto del bilancio al netto degli interventi del Maeci, si evince che già oggi la Farnesina è un “moltiplicatore” pari a 20: ogni euro di spesa pubblica ad essa destinato ha contribuito a generare 20 euro di crescita all’Italia, naturalmente grazie a un lavoro “di squadra” con le imprese nostrane, con le associazioni di categoria e il sistema camerale.
Pozza ha proseguito evidenziando «il valore per il “Sistema Italia” della rete rappresentata dalle 124 ambasciate e 80 consolati italiani nel mondo. Tuttavia anche per effetto dei “tagli” operati nell’ultimo decennio, vi è una grave carenza di personale sulla rete diplomatico-consolare italiana rispetto a quella di altri Paesi nostri “competitors”: presso una grande ambasciata italiana all’estero, quella di Pechino, lavorano in tutto 11 diplomatici; mentre ve ne sono 30 presso quella francese e 51 presso quella tedesca. Tale disparità si riscontra su tutta la rete estera, sulla quale incide tra l’altro l’aggravio di lavoro – particolarmente oneroso per le sedi di ridotta dimensione – determinato dalla complessa normativa amministrativo-contabile italiana, costituita da quasi 6.000 articoli, spesso difficilmente applicabile in contesti radicalmente diversi dal nostro».
«Nei prossimi anni – afferma Mason – ci sarà ancor più l’esigenza di fornire un forte sostegno alle nostre imprese, soprattutto quelle che operano al di fuori dell’Ue. L’internazionalizzazione dell’economia si accompagna sempre più alla richiesta di un efficace sostegno istituzionale in favore dei rispettivi sistemi economici, rilanciando l’importanza della diplomazia economica, chiamata a difendere in modo sempre più attivo i nostri interessi. A differenza degli altri Paesi, risulta evidente l’unicità della struttura produttiva italiana che genera bisogni specifici sui mercati internazionali. Confrontando i risultati emersi dell’indagine sugli ostacoli all’internazionalizzazione promossa nel 2013 dalla Commissione europea, emerge come, rispetto alla Germania, per l’Italia i bisogni primari siano assai più stringenti, legati alla raccolta di informazioni, oltre che alla selezione di partner e risorse affidabili sul mercato in cui inserirsi, fasi che possono essere assolte con disinvoltura da una queste strutture istituzionali di alto profilo professionale».
In quasi il 50% delle ambasciate italiane lavorano al massimo 2 funzionari diplomatici e nel 23% dei casi ve ne presta servizio solo 1 e la situazione comparata fornisce anche in questi casi risultati analoghi. Ad esempio, in Svezia, con cui l’Italia ha un interscambio bilaterale di circa 8 miliardi di euro ed ha ricevuto investimenti esteri (IDE) che assicurano tra i 150.000 e i 200.000 posti di lavoro, la nostra ambasciata ha 2 funzionari diplomatici, mentre la Francia ne ha 7, la Spagna 6 e la Germania 13.
Al riguardo, il presidente del Sindacato dirigenti ministero affari esteri, Francesco Saverio De Luigi, sottolinea che «ancora più grave è la situazione se si tiene conto del personale non diplomatico e dei contrattisti locali. La Farnesina, per effetto combinato dei pensionamenti e del blocco delle assunzioni, ha già perso circa 1.000 persone negli ultimi anni e ne perderà 100 l’anno in futuro. Sono numeri piccoli a livello nazionale, ma – ha proseguito – dirimenti per la posizione dell’Italia nel mondo e per gli interessi delle imprese e dei cittadini. A suo avviso oltre a mantenere il concorso diplomatico ed allargare subito la relativa pianta organica (diminuita di oltre il 10% nell’ultimo decennio), occorre procedere con almeno 1.200 assunzioni di personale di ruolo non diplomatico e procedere senza ulteriori esitazioni a una politica di formazione dedicata ed efficace in vista degli incarichi da svolgersi all’estero. Un diplomatico inglese che venga trasferito in un Paese arabo passa un anno di formazione al Cairo: non possiamo sognare la luna, ma 3 mesi di formazione dedicata a Roma, prima della partenza, è un atto dovuto. Andare avanti come ora – ha concluso De Luigi – è inverosimile».