La ricetta per la competitività del vino italiano all’assemblea di Federvini

Boscaini: «servono quattro ingredienti per la crescita: identità, territorio, cultura e innovazione». 

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Roma ha ospitato l’assemblea annuale di Federvini alla presenza del viceministro per l’agricoltura Andrea Olivero. La federazione ha più di 100 anni di storia e raggruppa produttori, esportatori ed importatori di vini, vini spumanti, aperitivi, acquaviti, liquori, sciroppi, aceti ed affini (esclusa la birra). Una realtà composta da 340.000 attività produttive, 1,2 milioni di persone attive e un giro d’affari complessivo di 25 miliardi di euro.

Entro il 2025 la Cina diventerà il secondo mercato mondiale del vino dietro gli Stati Uniti con 13 miliardi di dollari superando Francia e Germania; a valore sarà sempre la Francia a primeggiare, ma la Cina raggiungerà il quarto posto assoluto dietro a USA, Italia e Spagna. Nell’export Francia e Italia sempre sugli scudi con 16 miliardi di dollari e 11 miliardi.

Sandro Boscaini, presidente di Federvini ha spiegato che «per competere nel settore del vino servono quattro fattori fondamentali: identità, territorio, cultura e innovazione. Il tema della diversificazione non riguarda solo l’ambito geografico ma anche i prodotti. Oggi assistiamo al trionfo delle bollicine su scala mondiale. È proprio in questa fase che dobbiamo essere particolarmente bravi e utilizzare il Prosecco come punta di diamante sui mercati più lontani o più ostici, facendo da apripista e senza indurci nella tentazione del mono-prodotto. Il vino, pur restando una delle massime espressioni del settore agroalimentare, deve essere gestito diversamente dagli altri prodotti agricoli: trovare quindi un equilibrio tra le diverse fasi del ciclo di vita del prodotto/azienda è prioritario».

Durante l’assemblea, è stata presentata l’analisi di Mediobanca sul mercato “La generazione di valore nell’industria italiana del vino”, illustrata da Gabriele Barbaresco, responsabile del centro studi. Secondo la ricerca, tra i grandi Paesi produttori ed esportatore di vino, l’Italia è quella che ha la maggiore concentrazione nei suoi primi 10 mercati. L’indice HH, che misura proprio questo parametro, per il Belpaese tocca i 1.108 punti, sui 729 della Francia ed i 631 della Spagna. Ma c’è un altro aspetto peculiare: nei mercati dove è più forte per quota di mercato, l’Italia spunta prezzi più bassi rispetto agli altri. E così, nei suoi primi 3 mercati (che pesano per il 53,5% delle esportazioni), il prezzo medio del vino italiano è di 3 dollari al litro, che sale a 3,8 nei seguenti 7 mercati (che però pesano “solo” per il 24,7%. Non è così per la Francia, che vende a 6,3 dollari al litro nei sui primi 3 mercati (che valgono il 38,6% del suo export) e a 5,6 nei seguenti 7 (che pesano per il 36,3%), e non lo è neanche per la Spagna, che in entrambi i casi esporta con una media di 2 dollari al litro.

Un contributo importante è giunto anche da Nomisma-Wine Monitor. Le esportazioni di vino italiano, nei prossimi anni, continueranno a crescere in Usa e Canada, mentre tra i mercati emergenti, la Cina dovrebbe segnare una svolta positiva e sensibile, così come la Russia, al netto di “imprevisti geopolitici”. E se diverse opportunità arrivano anche dal Giappone, che dal 2019 vedrà entrare in vigore l’accordo di libero scambio con l’Ue, secondo Denis Pantini è probabile che le nostre spedizioni di vino segnino il passo in alcuni paesi europei come la Germania, dove i consumi complessivi non aumentano, e in Uk, dove si potrebbero sentire soprattutto gli effetti della Brexit e della svalutazione della sterlina. E, nel complesso, continuerà il trend spumanti, che toccherà anche i mercati emergenti (in particolare Est Europa ed Asia), ancora marginalmente coinvolti in questo boom.

«I dati sono paradigmatici – ha proseguito Boscaini – l’Italia è in coda ai paesi UE nel consumo di alcol in generale, mentre trionfa lo stile mediterraneo fatto di convivialità e di accompagnamento al cibo anche tra i “millennial”: questo dimostra come anche da un punto di vista imprenditoriale sia venuto il momento di ragionare in modo strutturale in termini di filiera allargata: non solo vino, spiriti e aceti ma anche cibo, turismo, arte ed ambiente. Dobbiamo mettere a sistema tutte le voci del nostro patrimonio culturale rendendole un unicum e ridisegnando il sistema delle priorità a livello nazionale: è ormai prioritario e non più procrastinabile mettere in un unico contenitore i diversi progetti, facendo ruotare intorno ai nostri settori e all’agro-alimentare nel suo complesso, il patrimonio artistico, archeologico ed ambientale».fededrvini

Per Boscaini è necessario «diversificare, puntare a strutture più snelle e ragionare in chiave di sistema con modelli imprenditoriali che siano al contempo saldi e flessibili. Solo così saremo pronti alle sfide del futuro prossimo con prodotti di valore e con una precisa identità».

La differenza per il consumatore viene fatta sempre di più dall’imprenditore, dalla sua esperienza e dall’heritage. Proprio di valore aggiunto hanno parlato i responsabili dei tre settori che raccoglie Federvini: vini, spiriti e aceti, in occasione dell’annuale assemblea. Il presidente di Gruppo Vini, Piero Mastroberardino, ha sottolineato come la filiera italiana sia fondamentalmente anomala: «il valore immateriale è garantito dall’unione tra marchio familiare e marchio territoriale, che, però, sono di per se elementi materiali. Ma se ci si vuole sviluppare è necessario crescere di dimensioni; e per fare questo bisogna ricorrere al capitale di terzi. La scommessa è mantenere l’equilibrio, evitando che proprio il capitale proveniente dall’esterno disperda il valore del marchio».

Secondo Micaela Pallini, presidente Gruppo Spiriti, è necessario per le imprese della tradizione italiana fare squadra: «solo così è possibile rafforzarsi nei mercati consolidati e conquistare quelli nuovi: per le aziende medio piccole, infatti, unirsi significa sfruttare economie di scala, come nel caso della distribuzione». Inoltre, ha proseguito Pallini «alcune grandi novità a livello mondiale degli ultimi anni, come la mixologia, non sarebbero possibili senza l’apporto del settore italiano».

Il settore aceti è un fiore all’occhiello dell’agro-alimentare italiano. «Sono circa 70 nel nostro Paese le imprese del settore – ha dichiarato Giacomo Ponti, vice presidente Gruppo Aceti – in gran parte familiari: in Francia sono rimaste in 3 e questo indica un vantaggio competitivo rilevante, dimostrato dal fatto che il 90% del prodotto circa viene venduto all’estero. La nostra parola d’ordine è qualità. La sfida attuale è quella contro l’“Italian Sounding”».