Eccesso di fisco in Italia: l’Ocse dimostra urgenza riduzione peso tasse su imprese

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manovra 2020

Italia terza tra i paesi membri Ocse per la grandezza cuneo fiscale gravante sul lavoro. Unimpresa: «indispensabile ridurre il costo del lavoro tramite una riforma fiscale per rilanciare l’economia».

Tasse, contributi e oneri vari sono ancora macigni sulle buste paga degli italiani. È quanto rileva l’Ocse, secondo cui il Belpaese è al terzo posto tra i membri Ocse per peso del cuneo fiscale sul costo del lavoro, ovvero la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e il corrispondente reddito netto percepito dal lavoratore.

Secondo la classifica del rapporto “Taxing Wages”, nel 2017 le tasse e i contributi sociali a carico di lavoratore e datore di lavoro ammontavano in Italia al 47,7% nel caso di un lavoratore singolo (in calo di appena lo 0,09% rispetto al 2016), contro la media Ocse del 35,9%. Peggio dell’Italia fanno Belgio (53,7%) e Germania (poco sotto il 50%). Il cuneo scende però al 38,6% per le famiglie di 4 persone con un unico percettore di reddito, contro la media Ocse del 26,1%.

Non vanno meglio i lavoratori con carichi di famiglia: dal 2000 al 2017 in Italia il cuneo fiscale è diminuito lievemente per i nuclei familiari con due figli ed un unico percettore di reddito (che possono beneficiare delle agevolazioni per i figli a carico). Nei 17 anni di osservazione la forbice tra le due tipologie si è allargata anche in Grecia, Portogallo e Stati Uniti, mentre si è ristretta nei Paesi Passi, in Norgevia e in Lettonia. Per i lavoratori senza figli, quello dell’Italia è un andamento in controtendenza rispetto alla media Ocse, scesa dal 37% al 35,9%.

L’Ocse sottolinea che, oltre che in Italia, il cuneo fiscale per i singoli senza figli è superiore al 45% anche in Austria, Belgio (dove è in assoluto più alto), Francia, Germania e Ungheria, mentre è al 20% o anche più basso in Cile (minimo del 7%), Messico e Nuova Zelanda.

In Italia il peso maggiore del costo del lavoro è rappresentata dai contributi complessivamente a carico del datore del lavoro, pari al 24%, contro il 7,2% a carico del lavoratore. La tassa sui redditi pesa invece per il 16,5%. Per quanto riguarda le famiglie monoreddito, il cuneo fiscale più alto è quello registrato in Francia (39,4%), seguita da Belgio, Finlandia, Grecia e Svezia, tutte – come l’Italia – tra il 38% e il 39%. All’opposto la Nuova Zelanda (6,4%), seguita dal Cile e dalla Svizzera.

La Spagna batte l’Italia, oltre che sul Pil pro capite, anche sul costo del lavoro: in media nel 2017 è stato di 56.980 dollari in Italia e a 52.500 dollari nel paese iberico. Anche qui, A fare la differenza è soprattutto il peso sostenuto dal lavoratore. L’imposta personale sui redditi, l’Irpef e la sua equivalente, è pari in Italia al 16,5% del costo del lavoro e in Spagna all’11,3%. Gli oneri sociali e contributi a carico del lavoratore sono pari rispettivamente al 7,2% e al 4,9, mentre quelli a carico del datore di lavoro ammontano al 24% e al 23%.

Per il vicepresidente di Unimpresa, Claudio Pucci, «l’Ocse dimostra la necessità di una riforma fiscale seria volta alla riduzione delle tasse sulle imprese e pure sulle famiglie. L’Italia è ampiamente sopra la media globale per quanto riguarda il cuneo fiscale e il gap è un fattore di competitività assai penalizzante per il nostro Paese. La crescita economia ha bisogno di un impulso fortissimo che potrebbe arrivare proprio dall’abbattimento del peso dei tributi sul costo del lavoro. Ci sarebbero benefici diretti sia sui costi aziendali, che calerebbero, sia sulle buste paga dei lavoratori, che aumenterebbero immediatamente. Tutto questo – prosegue Pucci – con effetti positivi sul prodotto interno lordo, grazie soprattutto alla potenziale crescita degli investimenti e all’incremento dei consumi delle famiglie».

«I dati di oggi confermano che urge una riforma fiscale per aumentare la busta paga netta che i lavoratori effettivamente incassano – dice Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori -. Inoltre, in questi anni di crisi, è mancata una politica dei redditi e la concertazione tra imprenditori e sindacati non ha funzionato. Non ci sono stati i rinnovi contrattuali, a cominciare dal pubblico impiego e questo ha dissanguato i lavoratori, impoverendoli – aggiunge Dona -. Anche se ora i rinnovi stanno arrivando, è di tutta evidenza che vanno cambiate le regole troppe discrezionali che governano l’adeguamento degli stipendi al costo della vita. Serve il ripristino della scala mobile all’inflazione programmata. Altrimenti se gli stipendi e le pensioni restano al palo, mentre le tariffe ed il costo della vita salgono, i consumi della famiglie non potranno mai decollare».