Causa le lunghe liste d’attesa e i tagli alle prestazioni, la salute di qualità è in gran parte solo a pagamento. I poveri italiani penalizzati rispetto agli immigrati nell’accesso alle cure
Negli ultimi anni, la quadratura dei conti della sanità è stata realizzata solo tagliando sui costi e sulle prestazioni, aumentando al contempo gli oneri a carico dei cittadini, i quali spesso pagano due volte il servizio sanitario nazionale: una volta con le tasse e l’altra con il pagamento diretto della spesa con ticket o delle prestazioni in regime di libera professione per accorciare sensibilmente i tempi d’attesa per la visita in regime assistenziale pubblico.
Pur essendo uno dei pochi sistemi sanitari a carattere universalistico, accessibile a tutti, cittadini italiani e non, quello italiano è sempre più un sistema a macchia di leopardo, con aree di eccellenza e sacche d’inefficienza e di mancata assistenza. Tra quest’ultime, l’assistenza odontoiatrica dove è largamente assente nonostante la sua importanza, e l’oculistica, ridotta ad essere una cenerentola delle prestazioni in ambito pubblico. Per non parlare poi delle liste d’attesa per accedere alle prestazioni in regime convenzionato, spesso lunghe mesi piuttosto che giorni, anche in presenza di codici d’urgenza. Tranne che in qualche area d’eccellenza esistente a NordEst, la media nazionale è impietosa: in media per una mammografia si è passati da 62 giorni d’attesa del 2014 a 122 del 2016 con punte di 142 giorni nel Sud e nelle isole.
Il costo dei ticket gravante sui cittadini è aumentato rispetto al 2007 del 53,7% (+162,2% per il ticket sui farmaci e +6,1% per le compartecipazioni per prestazioni sanitarie). Tutto questo ha una conseguenza: nel 2016 gli italiani hanno speso 35,2 miliardi per curarsi privatamente, con un aumento rispetto al 2013 del 4,2%. Sono 31,6 milioni gli italiani che sono stati costretti a rivolgersi con urgenza alla sanità privata.
C’è anche il lato negativo della situazione: secondo il VII rapporto Censis – Rbm Assicurazione Salute sulla Sanità pubblica, privata e integrativa, è aumentato dell’11% a 12,2 milioni il numero di persone all’anno che non riesce a curarsi a proprie spese, con tutto quel che ne consegue.
Peccato che in questo panorama di crisi delle prestazioni pubbliche per i cittadini italiani, ci sia un’area che viaggia a gonfie vele: si tratta dell’assistenza erogata agli immigrati irregolari o clandestini attraverso l’Istituto nazionale per la salute dei migranti (Inmp), presieduto dal 2012 dall’ex ministro della Salute, la Dem Livia Turco. Nonostante il calo dei nuovi arrivi, l’Inmp nel 2018 si è visto stanziare dalla Legge di bilancio la bellezza di ben 5 miliardi di euro (in crescita dai 4,7 miliardi del 2017) per l’accoglienza in guanti bianchi dei nuovi “ospiti”, erogando loro totalmente gratuitamente medici, psicologi, odontoiatri, infermieri, assistenti sociali, antropologi e mediatori transculturali, perché l’immigrato deve essere preso in carico in maniera «globale e integrata da parte di team con competenze socio-sanitarie multidisciplinari». Non solo: per il funzionamento dell’ennesimo carrozzone pubblico, lo Stato stanzia 8,1 milioni per il funzionamento dell’Istituto; 1,9 per le varie attività, che spaziano dal «monitoraggio dello stato di salute della popolazione immigrata» agli «interventi» nei centri di prima accoglienza gestiti dal ministero dell’Interno.
Questo in un panorama sanitario nazionale che ha visto la riduzione al 3% della spesa per investimenti con un tasso di ammortamento delle tecnologia all’85%, che si traduce in un sistema tecnologicamente vecchio e non all’avanguardia. Oltre a ciò si riduce il numero di medici e infermieri (la metà di quello attivo in Germania) e la loro età media è tra la più elevata d’Europa.