La ricchezza culturale delle civiltà precolombiana poi saccheggiata dai Conquistadores europei
Guardando la mostra “Il Mondo che non c’era” si impone una riflessione. Civiltà culturalmente avanzate, rimaste sconosciute per millenni, sono state sterminate dai “Conquistadores” europei, non appena scoperte. “Conquistatori”. Sembra un sostantivo dalla connotazione positiva. Si conquista la vetta di una montagna, il titolo mondiale di uno sport, un uomo, una donna, e via discorrendo. Ma quando si cancellano con la violenza e con l’inganno popoli che non volevano far del male all’invasore e li si depreda dei loro averi, dando vita ad una vergognosa corsa all’oro (il leggendario “Eldorado”), se si è una persona dotata di un’anima, minimo minimo, si dovrebbe essere tormentati dal rimorso vita natural durante.
Passando all’esposizione, – la seconda consecutiva allestita nelle sale storiche e confortevoli di palazzo Loredan (dal nome della nobile famiglia veneziana che lo acquistò nel 1536), sede da due secoli dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti – il titolo scelto vuole indicare quei popoli che non si conoscevano, ma che una volta conosciuti sono rimasti senza voce perché annientati dai “Conquistadores”. Così si è espresso Inti Ligabue, il quale tramite la Fondazione Giancarlo Ligabue continua a portare avanti il lavoro e il pensiero del genitore (1931-2015), nel presentare l’ultima tappa della mostra a Venezia (aperta fino al 30 giugno): «con questa mostra e con il catalogo che l’accompagna ho cercato di raccontare la storia delle culture di un altro continente che ci hanno affiancato per millenni, senza farsi conoscere».
E proprio la collezione Ligabue, ha continuato Inti, «è nata dall’acquisto di una maschera nera dei leggendari tagliatori di pietra di Teotihuacan, che fu il primo oggetto che mio padre comprò ormai 50 anni fa e che portò a viaggi e ricerche ( si parla di 135 spedizioni in 40 anni) destinate a continuare». Inti non ha nascosto un’emozione particolare, sia perché l’esposizione è un omaggio al padre, sia perché ha ricordato come sua madre, originaria delle vallate Tihuanco della Bolivia, si è sempre adoperata «affinché mantenessi vivi in me origini ed orgoglio, a cominciare dal mio nome , Inti», che nella lingua degli Inca è il Sole.
Prima di lui, Gherardo Ortalli, presidente dell’Istituto, aveva ricordato come la passione di Ligabue, «che per più di un trentennio, dal 1985, fu socio di questo Istituto Veneto, non avesse fini di lucro. Era una passione gratuita, non per fare affari. La mostra dà la possibilità di scoprire un mondo rimasto un po’ troppo ai margini. E’ ricca di oggetti importanti spiegati in maniera tale che quando uno esce dal Palazzo sa qualcosa di più».
E’ un’esposizione da centellinare, prendendo a prestito un’espressione tipica di chi degusta un buon vino. Necessita di almeno due ore, ed è consigliabile informarsi sugli orari e le giornate sulla carta meno frequentate. Perché di ogni oggetto, delle sue caratteristiche, della sua storia, del suo utilizzo, si può sapere molto, grazie ad un clic sull’ologramma che lo descrive in maniera esaustiva. La fretta va bandita. Ci si può indirizzare verso numerose sezioni, soffermandosi, per esempio, sul vero oro delle Americhe, l’oro verde dei prodotti alimentari, sui molti significati, anche esoterici, del gioco della palla (“ulama”), carico di valenze politiche e religiose, sulle visioni di splendidi manufatti, quali i vasi e i bicchieri per il cacao. Come ha spiegato l’archeologo Davide Domenici, membro del comitato scientifico della mostra, nonché autore del saggio “I sistemi di scrittura nell’America precoloniale”, inserito nel catalogo stampato come sempre con estrema cura da Grafiche Antiga, il bere il cacao (“Theobroma cacao”) durante incontri fra nobili, durante ambascerie, era una delle forme principi dell’attività cortese. La preparazione della bevanda era molto elaborata. Si versava tante volte il cacao da un vaso all’altro, mescolandolo con l’acqua e con altri ingredienti per far salire una spuma che era la parte più apprezzata della bevanda”.
Davvero belli, elegantemente disegnati, bicchieri e vasi in terracotta “erano ritenuti gli oggetti più preziosi in assoluto, le opere d’arte più raffinate, tanto è vero che sappiamo che i più grandi artisti del mondo classico dipingevano bicchieri di cacao, a volte firmandoli”. E proprio al cacao sarà dedicata “La tazza di cacao” (tema: vasellame e manifattura precolombiana), una delle attività educative indirizzate alle scuole primarie. Si legge nella scheda come ad esso fossero collegate misteriose pratiche rituali e gli oggetti dedicati al suo consumo fossero decorati con grande dedizione ed attenzione. Attraverso un laboratorio artistico creativo i bambini apprenderanno a costruire un manufatto di ceramica biscotto, che approfondirà la tecnica e lo stile delle decorazioni ceramiche precolombiane legate al culto del cacao.
La mostra descrive attraverso oltre 200 opere le culture antiche della Mesoamerica – che comprende lo stato messicano del Sinaloa e del Tamaulipas a Nord, la repubblica di El Salvador e dell’Honduras occidentale a Sud, oltre al Guatemala e al Belize – di Panama e dell’America del Sud (Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia fino a Cile e Argentina), ricordando come al momento della Conquista si parlassero ben 28 lingue differenti. E’ interessante inoltre rendersi conto come accanto alle più famose Maya, Inca e Azteca esistessereo decine di culture, a partire da quelle più antiche (dal 1200 al 400 circa a.C.). Si tratta di culture che in molta parte necessitano ancora di essere studiate e comprese, annientate e annichilite per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre da parte dei Conquistadores, autori di stragi e razzie, ammaliati solo dalle ricchezze materiali, alla ricerca dell’oro “El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista.
Per nostra fortuna, l’incontro/scontro tra indigeni ed europei portò anche ad una trasformazione alimentare. Nel 1521 i “Conquistadores” spagnoli, sbarcati in Messico, trovarono una grande quantità di piante sconosciute – il mais, l’avocado, la zucca, il fagiolo rosso, il pomodoro, la vaniglia, la patata, il cacao, le nocciole, i frutti tropicali (ananas, mango e papaya) – che, anche se occorsero molti secoli, fecero riflettere l’uomo europeo su quali ricchezze e potenzialità alimentari fossero presenti in alcune varietà di piante arrivate dal Nuovo Mondo.
Un particolare, doveroso approfondimento è dedicato al mais, che arrivò a Venezia, importato dalla Spagna, alla fine degli anni ’20 del 1500, da Andrea Navagero. In mostra è personificato da una statua mutila della cultura azteca, rappresentante Chicomecoatl, in pietra vulcanica grigia, alta 54 centimetri, (1450 – 1521 d.C), proveniente dalla Valle del Messico. Chicomecoatl (sette serpenti) è la dea del mais. Doveva tenere nelle mani due preziose pannocchie di mais (cemaitl). Due feste del calendario solare le erano consacrate. In una si cercavano dei giovani germogli di mais nei campi, parte dei quali veniva offerta al tempio della dea per costituire il cuore del granaio. Nell’altra, una giovane ragazza che rappresentava la dea era sacrificata sopra il mais, in seguito distribuito alla popolazione per le future semine. Un sacerdote indossava quindi la pelle della vittima, così come i suoi diversi attributi, tra cui l’amacalli, “casa di carta”, un copricapo formato da un’armatura di canne, ricoperta di carta e di corda e inquadrata da rosette di carta. Coltivato nel Polesine fin dal 1554, questo cereale divenne l’ingrediente principale della polenta, preparata ignorando le tecniche elaborate dagli indigeni americani – la Nixtamalizzazione – ossia l’immersione dei grani essicati in una soluzione d’acqua e calce al cinque per cento, onde scongiurare il pericolo della pellagra.