L’opera di Pietro Bortoluzzi edita per i tipi de “La Toletta Edizioni” fa il punto sulla lingua del Sì
Di Giovanni Greto
L’ultima fatica di Pietro Bortoluzzi, docente di lettere e latino, è stata presentata negli spazi del Liceo classico Marco Polo di Venezia, dove il professore insegna, in un incontro promosso dai giovani studenti del gruppo “Toletta Teens”, in collaborazione con l’editore e libraio della storica libreria veneziana. Il volume tascabile (10×16,5 centimetri) fa parte di una nuova collana, “I Tolettini”, che potrebbe trovare il consenso di un pubblico giovane o di chi non è avvezzo ad acquisti cartacei.
Per comprendere il sottotitolo del libro bisogna tornare indietro nel tempo, al “De vulgari eloquentia” di Dante in cui la panthera redolens, la inafferrabile pantera profumata, rappresenta l’allegoria del volgare illustre, ricercato dal poeta fiorentino.
L’autore nella “Premessa” chiarisce come il volume intenda «seguire l’evoluzione ed il diversificato percorso di quel profumo che Dante aveva creduto esser quello del volgare illustre, ma che ormai è diventato, in quasi un millennio di vita, quello dell’italiano attuale, una lingua che ha avuto e continua ad avere una storia tanto lunga quanto controversa». Un profumo che fu «ed è ancora al centro di mille discussioni, di mille tentate regolamentazioni e anche di tentate e forzate strumentalizzazioni».
I 19 capitoli in cui si sviluppa il libro, rivisti e rimeditati, hanno origine da una rubrica sulla storia della lingua italiana, tenuta dal professore sulla rivista italo-polacca Gazzetta Italia. In tal modo, «questa raccolta di testi dà la possibilità di cogliere volutamente in modo non cronologico alcune delle principali dinamiche della storia della lingua italiana». Una curiosità. La pre-revisione del testo ha fatto affiorare, grazie al parere dell’editore, Giovanni Pellizzato, il problema della “d” eufonica, cioè «quella “d” che viene aggiunta alla preposizione “a” trasformandola in “ad” e alla congiunzione “e” trasformandola in “ed”, quando sono seguite da parola che comincia per vocale», con lo scopo di rendere il suono più gradevole. Per esempio “a altri” diventa “ad altri”, “a ogni costo”, “ad ogni costo”. Questo fino a cinquant’anni fa. Oggi, fatta eccezione per “ad esempio”, la “d” s’inserisce solo se la parola comincia con la stessa vocale: “ad aspettare”, “ed entrò”. Fermo restando che ognuno può scrivere liberamente come più gli aggrada o gli suona musicale.
E allora partenza con il veneziano Pietro Bembo (1470-1547), cardinale, scrittore, grammatico, traduttore e umanista. Le sue “Prose della volgar lingua”, edite nel 1525 in tre libri, costituiscono uno dei primi tentativi di storia letteraria italiana. Il modello da seguire è quello dei migliori scrittori. Nel libro primo, l’autore si chiede se il latino sia preferibile al volgare. Se si opta per il volgare, ci si chiede quale prediligere. Ed ecco la risposta: per la prosa, la lingua della “Cornice del Decameron” di Boccaccio; per la poesia, il perfetto volgare lirico del canzoniere del Petrarca. Il secondo libro tratta di questioni metriche e di retorica del volgare. Il terzo, il più corposo, occupa metà dell’opera, è una descrizione morfologica del toscano trecentesco. Dunque, secondo il trattato, per motivi sostanzialmente di gusto, la lingua italiana da usare nella scrittura è il toscano letterario.
Due, i capitoletti dedicati ad Alessandro Manzoni (1785- 1873). Nel primo, “Quando Manzoni sciacquò i panni in Arno”, l’Autore si riferisce all’intento dello scrittore di rivedere la lingua de “I promessi sposi”, per renderla aderente al fiorentino vivo e parlato, promuovendo la lingua parlata dalla borghesia fiorentina a lingua unitaria d’Italia, non solo politicamente, ma anche linguisticamente. Nel secondo, Manzoni sottostima linguisticamente Dante, da più parti considerato il padre della lingua italiana, perché egli avrebbe avuto in mente, nel “De vulgari eloquentia”, la semplice valorizzazione di tutti i volgari illustri rispetto al latino, invece di pensare a una lingua nazionale.
Tra il doppio spazio occupato dal Manzoni, si colloca il capitolo dedicato ad Aldo Manuzio (1449/52 – 1515), il papà del libro moderno, tra i maggiori editori di tutti i tempi, il cui catalogo costituiva una specie di enciclopedia del sapere umanistico. Leon Battista Alberti (1404-1472) viene celebrato come colui che perfezionò il volgare e che redasse la prima grammatica della lingua italiana. L’utopica lingua nazionale di Ludovico Ariosto (1474 – 1533) s’ispira a quel toscano letterario trecentesco teorizzato da Pietro Bembo, prende spunto sia dalle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio e Poliziano, sia dal latino classico e sfocia nella creazione per l’Orlando Furioso di una famosa ottava, la cosiddetta “ottava d’oro”.
Balzo cronologico in avanti, per scoprire Alfredo Panzini (1863-1939), insigne lessicografo, che nel periodo di autarchia linguistica ordinato dal Fascismo, censì, con un lavoro enorme quanto sostanzialmente inefficace, un migliaio e mezzo di forestierismi banditi dal regime, sostituendoli con termini italiani. Se penso all’incomprensibilità e alla bruttezza dell’italiano dei tele- e radio-giornali, ma anche di parte dei quotidiani, in cui è l’inglese a farla da padrone, non sono sicuro che quell’italiano autarchico fosse davvero peggiore.
Non poteva mancare nel libro un capitolo dedicato al “vate”, il “poeta sacro” per antonomasia, Gabriele D’Annunzio (1863-1938), cui va attribuito il merito di aver fatto entrare nel lessico un’infinità di parole nuove o ripescate dal passato glorioso della tradizione letteraria e lessicale, ridando loro una nuova vitalità. Tra le lingue locali degli stati preunitari, prosegue Pietro Bortoluzzi, che hanno svolto un ruolo importante nella storia della lingua italiana, spicca il Veneziano, la lingua della Serenissima, che per quasi mille e cento anni fu una vera e propria lingua internazionale, paragonabile all’inglese contemporaneo.
Parlando di Dante (1265-1321), l’Autore esamina il “De vulgari eloquentia”(1303-1304), un trattato rivolto ai chierici, ossia i letterati di professione, dedicato alla “vulgari eloquentia”, cioè alla retorica in lingua volgare. E sceglie di scrivere in latino, ritenendolo una grammatica artificialmente perfetta, per mezzo della quale i popoli riescono ad intendersi al di sopra degli idiomi particolari.
Nuovo balzo in avanti per avvicinarsi alla creazione della prima lingua televisiva con scopi educativi, che si materializza nella fortunata trasmissione “Non è mai troppo tardi”, in onda dal 1960 al 1968, ideata e condotta dal maestro Alberto Manzi (1924-1977), allo scopo di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani che non ne erano ancora in grado, pur avendo superato l’età scolare.
Si prosegue con “Il pasticciaccio di Gadda”(1893-1973), un capitolo in cui si tratteggia la figura di un letterato che segnò la narrativa del Novecento, attraverso sperimentazioni linguistiche che, soprattutto nel romanzo “Quel pasticciaccio brutto de via Merulana”, faranno diventare la sua lingua uno strumento di indagine sociale. Tra gli inventori di linguaggi teatrali, ecco il Grammelot di Dario Fo (1926-1916), materializzato in “Mistero Buffo” (1969), uno spettacolo recitato in una lingua che univa, contaminandoli e fondendoli, diversi dialetti lombardo-veneto-friulani con la sua personale memoria di quei fabulatori contadini uditi ed ammirati durante la sua infanzia, discendenti leggendariamente da giullari, attori itineranti e comici della commedia dell’Arte. L’esempio di Fo sarà ripreso, qualche anno dopo, nel 1972, da Adriano Celentano, con la canzone “prisencolinensinainciusol”, che imitava i suoni della lingua inglese, quasi un Rap ante-litteram.
Una certa importanza viene attribuita anche a Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), un anti-passatista che predicava una letteratura priva di regole, contribuendo, secondo Maria Luisa Altieri Biagi «a snellire la sintassi, a semplificare la morfologia, a rinnovare il lessico».
Ma il capitolo più lungo Bortoluzzi lo dedica al glottologo e studioso Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), l’inventore della linguistica comparata, il quale ebbe il merito di redigere la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani. Fortemente polemico verso il fiorentino borghese della teoria manzoniana, approvato e imposto dall’alto, Ascoli propone un progetto culturale secondo il quale l’Italia è in grado di elaborare una lingua unitaria dal comune e concreto lavorìo della sua policentrica vita culturale. Il modello è quello della Germania che vanta «la più salda e potente unità di linguaggio che abbia mai risonato sulla terra», grazie alla «energia della progredita cultura» ed alla «operosità infinita» che hanno generato in primo luogo «una salda unità intellettuale e civile». Un passo indietro conduce a Niccolò Machiavelli (1469-1527), per il quale la lingua da preferirsi è il fiorentino contemporaneo, idioma per natura superiore a tutti gli altri e per questo lingua sulla quale sarebbe poi nato il volgare letterario italiano stesso.
Gli ultimi tre capitoli segnano un ritorno al contemporaneo. Il primo concentra l’attenzione su uno dei più completi intellettuali del XX secolo, Pier Paolo Pasolini (1922-1975). L’autore si sofferma su una conferenza provocatoria, “Nuove questioni linguistiche”, pubblicata sulla rivista Rinascita del 16 dicembre 1964. In essa Pasolini prende atto che il linguaggio delle fabbriche era diventato il “nuovo italiano come lingua nazionale”, constatando come il centro irradiante delle novità linguistiche si era spostato a partire dagli anni Sessanta dal centrosud verso il triangolo industriale del Nord, che stava per dare alla luce una nuova lingua, l’italiano tecnologico delle fabbriche, un italiano comunicativo, ma brutto, arido, impoverito, inadeguatamente espressivo. E allora, si difendano i dialetti, che rappresentano lingue potenziali non giunte mai in atto, perché soppiantate dal prestigio letterario del fiorentino.
Il penultimo autore analizzato è in realtà un simbolo della scuola comica italiana del primo Novecento, Antonio de Curtis, in arte Totò (1898-1967). Di lui si ricorda il suo apporto linguistico, grazie a frasi e neologismi ormai entrati nel lessico dell’Italiano e si cita il fondamentale volume di Tullio De Mauro, “La storia linguistica dell’Italia unita”, nel quale si legge che Totò «aveva promosso una rivoluzione, lottato contro l’aulicità, la tromboneria, la polverosità della nostra lingua».
Il capitolo finale, quando il libro era già quasi pronto per la stampa, analizza l’italiano di Paolo Villaggio (1932-2017), una neolingua di successo dell’ultimo mezzo secolo, piena di congiuntivi sbagliati, di iperboli, di esagerazioni.
Numerosi, dunque, sono gli spunti per riflettere, per approfondire, per conoscere meglio gli autori elencati. Lo stile di Bortoluzzi dimostra una cultura di fondo, che si manifesta anche nella volontà di usare parole poco frequenti – “primazia”, invece di supremazia, primato; “mescidata”, invece di mischiata, mescolata –, una chiarezza espositiva, una capacità di raccontare e di affascinare il lettore grazie ad una storia non ancora ben conosciuta , quale è quella della lingua italiana.