Per la Cgia di Mestre serve ancora un deciso impegno per risollevare complessivamente l’economia regionale
Il Veneto ha agganciato la ripresa e per l’anno in corso il Pil dovrebbe attestarsi attorno al 2%. Un dato, quest’ultimo, che non raggiungevamo dal 2010. A dare un contributo importante al rilancio economico del 2017 sono, in particolar modo, l’export (+6,1% nei primi 6 mesi dell’anno), gli investimenti (superiori al 2%), e i consumi interni che dovrebbero seguire la dinamica del Pil. I settori economici che stanno trainando la crescita sono i macchinari, l’occhialeria, la gomma/plastica, la siderurgia e i mezzi di trasporto.
Non tutte le categorie economiche sono interessate da questa ripresa. Le botteghe artigiane e i piccoli negozi commerciali, ad esempio, continuano ad essere in affanno e il loro numero complessivo è in calo. Dal giugno 2009 ai primi 6 mesi di quest’anno, le aziende artigiane in Veneto sono diminuite di 14.888 unità (-10,3%). A metà 2017 ne contavamo poco più di 129.000. La caduta, purtroppo, è continuata anche negli ultimi 12 mesi: tra il giugno di quest’anno e lo stesso mese del 2016 lo stock è sceso di 1.567 attività (- 1,2%). La provincia più colpita è stata Rovigo che negli ultimi 8 anni ha perso il 12,8% delle imprese artigiane.
Seppur meno marcata delle imprese artigiane, anche i piccoli negozi al dettaglio hanno registrato una riduzione in termini numerici: tra giugno 2009 e lo stesso mese di quest’anno risultano 840 unità in meno (-1,7%). Nell’ultimo anno (giugno 2017 su giugno 2016) il numero complessivo dei piccoli negozi è sceso di 740 unità (-1,3%). A metà 2017 il numero totale delle imprese del commercio al dettaglio era pari a 48.243.
Le botteghe artigiane e i piccoli negozi commerciali vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie. E nonostante siano tornati a crescere, le vendite al dettaglio sono positive sia in termini di volumi sia in termini di valore solo per la grande distribuzione organizzata, mentre per i negozi di vicinato il dato è ancora negativo. Se si aggiunge l’eccessivo peso delle tasse, l’impennata avvenuta in questi anni del costo degli affitti e la mancanza di credito, questo mix di criticità ha costretto moltissimi autonomi a chiudere definitivamente la saracinesca della propria bottega.
Anche se questo risultato è stato ottenuto grazie al forte aumento del numero dei precari, gli occupati nel Veneto sono tornati ai livelli pre-crisi (2.100.000 circa). Il tasso di disoccupazione, invece, nel 2017 si dovrebbe attestare al 6,4%. In termini assoluti il numero dei senza lavoro a fine anno sfiorerà le 150.000 unità. Sebbene sia quasi il doppio del dato che avevamo nel 2007, in Italia solo nelle province autonome di Trento e di Bolzano si registra un tasso di disoccupazione inferiore al nostro.
«Con la sparizione dei principali istituti di credito veneti – segnala il segretario della CGIA, Renato Mason – ci preoccupa non poco l’ipotesi che la stretta creditizia prosegua ancora. Sebbene la domanda di credito non sia in calo, ricordo che nell’ultimo anno gli impieghi all’intero sistema delle imprese venete sono diminuiti di 6,3 miliardi di euro. Per un territorio come il Veneto fatto prevalentemente di piccole e micro imprese storicamente a corto di liquidità e sottocapitalizzate, il perdurare della contrazione del credito potrebbe minare la tenuta finanziaria di molti settori».
L’ultimo sguardo dato dalla CGIA di Mestre riguarda gli investimenti e in particolar modo quelli legati a “Impresa 4.0”. «Pur essendo uno strumento intelligente – conclude Mason – il piano “Impresa 4.0” rimane tarato sulle esigenze delle medie e delle grandi aziende. Non è un caso, infatti, che la stragrande maggioranza degli incentivi sia stata utilizzata da queste ultime. E’ necessario, inoltre, che in questa rivoluzione digitale non siano coinvolte solo le aziende, ma anche la pubblica amministrazione, la scuola e le maestranze. Su queste ultime, infine, va aperta una riflessione. Senza mettere in discussione i diritti dei lavoratori dipendenti, le parti sociali devono tornare a metter mano ai contratti, superando, ad esempio, i livelli di inquadramento che, alla luce dei cambiamenti in atto, costituiscono un ostacolo alla flessibilità che ci viene richiesta dal mercato del lavoro».