Il licenziamento, al contrario del dimissionamento, fa scattare la “Naspi” con liquidazione a favore dell’ex dipendente dell’indennità per 24 mesi con maggiori costi a carico di Inps ed aziende
Un nuovo, deleterio effetto viene a galla dalla riforma Fornero in fatto di indennità a seguito della perdita del posto di lavoro. Lo segnala l’Ufficio studi della Cgia di Mestre che ha evidenziato come nell’ultimo anno i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel settore privato hanno registrato una crescita percentuale del 26,5%. Le altre tipologie di licenziamento, invece, non hanno presentato trend di crescita così importanti.
Se i licenziamenti totali sono saliti del 3,5%, quelli per giustificato motivo oggettivo sono aumentati del 4,6% e quelli per esodo incentivato, invece, sono addirittura crollati del 19%. Stante la leggera ripresa economica e l’aumento dell’occupazione in atto, questo orientamento fatica a trovare una giustificazione legata alle normali dinamiche esistenti tra i datori di lavoro e le proprie maestranze.
«Ad averne innescato l’ascesa – denuncia il coordinatore dell’Ufficio studi, Paolo Zabeo – è stata una cattiva abitudine che si sta diffondendo tra i dipendenti. Seppur in forte crescita, questo fenomeno presenta delle dimensioni assolute ancora contenute. Nell’ultimo anno, infatti, ha interessato 74.600 lavoratori. Se, comunque, seguiterà questa tendenza, è evidente che nel giro di qualche anno ci ritroveremo con numeri molto importanti».
Cosa è successo? Con l’introduzione della riforma Fornero, dal 2013 chi viene licenziato ha diritto all’ASpI (indennità mensile di disoccupazione): una misura di sostegno al reddito con una durata massima di 2 anni che costringe l’imprenditore che ha deciso di lasciare a casa il proprio dipendente al pagamento di una “tassa di licenziamento”. Se si verifica questa situazione, il datore di lavoro deve versare all’Inps una somma pari al 41% del massimale mensile della NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni. Per una persona con un’anzianità lavorativa di almeno 3 anni, la tassa a carico dell’azienda può sfiorare i 1.500 euro.
Così accade che se un dipendente vuole cambiare lavoro, invece di dimettersi senza ricevere in cambio nulla, aspetta invece che sia il datore di lavoro a licenziarlo, facendo così scattare le indennità. «Se un’impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati – dichiara il segretario della Cgia, Renato Mason – provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perché un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI (NASpI*) in maniera impropria».
Anche nel primo trimestre di quest’anno si registra la medesima tendenza con un incremento considerevole del +14,7% (sullo stesso trimestre del 2016) dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Come mai avviene tutto ciò? Per “inerzia” del dipendente che in caso di dimissioni vuole evitare incombenze burocratiche e ottenere la NASpI.
Non sono pochi coloro che negli ultimi tempi hanno deciso di non recarsi più al lavoro senza dare alcuna comunicazione al proprio titolare. Essendo stata introdotta nel marzo del 2016 l’obbligatorietà delle dimissioni “on-line”, se il dipendente “diserta” la presenza in cantiere o in ufficio e non comunica telematicamente la volontà di starsene definitivamente a casa, l’interruzione del rapporto di lavoro la deve “avviare” il datore di lavoro attraverso il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Procedura che, grazie alla legge Fornero, consente al lavoratore “scorretto” di ricevere la NASpI, misura che non gli spetterebbe, invece, nel caso di dimissioni volontarie.
«Questo astuto espediente – conclude Zabeo – sta creando un danno economico non indifferente. Non solo perché costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento che può arrivare fino a 1.500 euro, ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a 20.000 euro a lavoratore».
In buona sostanza, lo stratagemma si sta diffondendo e a conferma di questa tesi aiutano i dati relativi alle dimissioni volontarie rassegnate dai lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato: tra il 2015 e il 2016 la contrazione è stata del 13,5%.
Prima che la situazione esploda, sarebbe opportuno che il Governo intervenisse con un apposito decreto legge per stroncare sul nascere una pratica che rischia di costare caro alle casse dello Stato (e ai contribuenti tutti) per favorire i soliti “furbetti”.