Ricerca Cro di Aviano evidenzia la mutazione di un gene dietro resistenza alle cure contro la leucemia linfatica cronica

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La Llc colpisce in italia ogni anno 5-7 pazienti ogni 100.000 

leucemia linfatica cronica celluleRisiede nelle mutazioni del gene “NOTCH1” la causa della resistenza alle cure di una percentuale significativa di casi di leucemia linfatica cronica (Llc). Lo rivela uno studio condotto dai ricercatori dell’Oncoematologia Clinico Sperimentale dell’Istituto Nazionale Tumori Cro di Aviano, diretta da Valter Gattei, pubblicata sulla rivista internazionale Leukemia.

Lo studio, coordinato da Michele Dal Bo assieme a Federico Pozzo e Tamara Bittolo, ha dimostrato come le cellule portatrici della mutazione assomiglino molto a quelle di altre malattie tumorali del sangue a decorso particolarmente grave, come certe forme di linfomi o leucemie acute, perché la proteina mutata di “NOTCH1” attiva l’espressione di un altro gene, detto “MYC” e, a cascata, quella di altri spesso presenti in maniera abbondante e nociva nelle forme aggressive di linfomi e leucemie. 

Sotto il profilo clinico – riferisce il Cro – le osservazioni formulate dai ricercatori risultano di particolare importanza, considerata la recente disponibilità ad arricchire la terapia contro la Llc di farmaci biologici. Questi ultimi, infatti, hanno permesso nuove e insperate possibilità di cura per pazienti affetti da malattie ad andamento clinico particolarmente aggressivo refrattari alle terapie convenzionali che, in questo contesto, possono essere identificati mediante la ricerca delle mutazioni del gene “NOTCH1”. 

La leucemia linfatica cronica è considerata la più frequente forma leucemica del mondo occidentale, con circa 5-7 casi ogni 100.000 abitanti all’anno in Italia. La nuova scoperta si inserisce in una linea di studio condotta dal gruppo di Dal Bo che ha già dimostrato, tramite una pubblicazione su Leukemia, come la Llc mutata per il gene di “NOTCH1”, oltre ad avere un andamento clinico più aggressivo, diventa spesso resistente alla terapia con uno dei farmaci più classicamente in uso, ossia l’anticorpo monoclonale anti-CD20. Gli studi sono il frutto di strette collaborazioni con le Università di Udine e Trieste, Roma Tor Vergata, Catania e del Piemonte Orientale, con i fondi stanziati ad hoc da Cro, Ministero della Salute, Airc, Ail e Fondazione per la Vita di Pordenone.