Studio dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano su 85 pazienti bilingui altoatesini. Confermato quanto già evidenziato da uno studio belga tre anni fa
Le persone che parlano abitualmente due lingue sono più protette dalla demenza senile causata dal morbo di Alzheimer: la malattia infatti, nei bilingui, si manifesta più tardi (anche 5 anni dopo, rispetto ai monolingui) e con sintomi meno intensi. La conferma arriva da uno studio italiano pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e coordinato da Daniela Perani, direttrice dell’Unità di Neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente all’Università Vita-Salute San Raffaele, che è stato illustrato a Bolzano da Alessandra Lubian della Memory Clinic di geriatria.
Lo studio, condotto in Alto Adige dalla Medicina Nucleare con il supporto della Geriatria e della Fisica Sanitaria, è stato svolto in collaborazione con l’Unità di Neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. Il confronto tra il metabolismo glucidico cerebrale dei monolingui con quello dei bilingui ha dimostrato, che questi ultimi presentano una più elevata attività metabolica in corrispondenza delle strutture cerebrali frontali.
I ricercatori hanno studiato 85 pazienti affetti da Alzheimer, metà italiani monolingui e metà bilingui, originari dell’Alto Adige, attraverso una tecnica chiamata FDG-PET (un tipologia di tomografia a emissione di positroni che permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra diverse strutture del cervello). In linea con i risultati di studi precedenti (come quello realizzato nel 2014 dall’Università di Gent su soggetti con una probabile diagnosi di Alzheimer, 69 parlanti monolingue e 65 parlanti bilingue, appartenenti alle comunità dei Valloni e dei Fiamminghi, i due gruppi linguistici esistenti in Belgio), i pazienti bilingui con Alzheimer sono risultati in media più vecchi di 5 anni rispetto ai monolingui e hanno ottenuto punteggi più alti in alcuni test cognitivi volti a valutare la memoria verbale e visuo-spaziale (la capacità di riconoscere luoghi e volti).
L’uso della FDG-PET ha svelato che questi pazienti, rispetto ad una migliore prestazione cognitiva, hanno un metabolismo più danneggiato nelle aree del cervello tipicamente colpite dalla malattia, rispetto ai pazienti monolingui. Secondo gli autori dello studio, il bilinguismo costituisce una “riserva cognitiva” che funziona da difesa contro l’avanzare della demenza. «Questo perché una persona bilingue è capace di compensare meglio gli effetti neurodegenerativi della malattia di Alzheimer – afferma Daniela Perani – che il decadimento cognitivo e la demenza insorgeranno dopo, nonostante il progredire della malattia».
Nello studio, i ricercatori mostrano che il cervello dei pazienti che parlano due lingue, rispetto a quello dei pazienti monolingui, presenta una maggiore attività metabolica nelle strutture cerebrali frontali – implicate in compiti cognitivi complessi – e una maggiore connettività in due importanti network che svolgono funzioni di controllo cognitivo ed esecutivo. Sarebbero anche questi meccanismi a garantire ai pazienti bilingui prestazioni cognitive migliori, a fronte della perdita di strutture e funzioni cerebrali importanti, sempre a patto di utilizzarle costantemente durante tutta la vita.
Per Perani l’utilizzo di più lingue si estende anche all’impiego dei dialetti: «essere bilingui non significa necessariamente parlare italiano e inglese o italiano e tedesco (come i pazienti altoatesini da noi studiati), ma anche italiano e dialetto della zona di provenienza. Per questo sarebbe importante attuare iniziative di difesa delle “parlate” regionali, che invece si perdono». Proprio il maggiore utilizzo di aree cognitive “costringe” il cervello a realizzare maggiori connessioni per compensare l’avanzamento della malattia.