“Prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura” a Venezia

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babilonia ligabue prima dellalabeto
Palazzo Loredan ospita fino al 25 aprile l’ultima proposta della fondazione Giancarlo Ligabue

Di Giovanni Greto

babilonia ligabue prima dellalabetoNon è una mostra da vedere in fretta, perché la si deve assaporare. Ed è preferibile entrare nelle cinque stanze, in momenti ed orari di bassa frequenza. “Facile a dirsi!”, potrebbe replicare qualcuno. Bisogna anche possedere la virtù della pazienza, per indagare e riflettere su tutto quanto la mostra offre, stimolando il visitatore. 

“Prima dell’alfabeto” è l’ultima fatica della Fondazione Giancarlo Ligabue, nata esattamente un anno dopo la scomparsa del titolare (25 gennaio 2015) – imprenditore, archeologo, paleontologo e grande esploratore -, in sostituzione del Centro studi ricerche Ligabue, ed è presieduta dal figlio Inti. Azzeccata la scelta di collocarla al piano superiore dello storico palazzo Loredan, sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, in campo S. Stefano, nelle sale di un’antica biblioteca ottocentesca, in cui si respira l’aria della Venezia del passato, intatta nell’aspetto esteriore, stimata dal mondo intero. La mostra è curata da Frederick Mario Fales, professore ordinario all’Università degli studi di Udine, socio effettivo dell’Istituto Veneto, uno fra i più noti assiriologi e studiosi del Vicino Oriente Antico.

Sono esposte per la prima volta quasi 200 opere della Collezione Ligabue, in un viaggio a ritroso di oltre 5.000 anni verso un universo di segni, simboli, incisioni, immagini e racconti visivi che testimoniano la nascita e la diffusione travolgente della scrittura cuneiforme, rivelando nel contempo l’ambiente sociale, economico e religioso dell’antica Mesopotamia. Come scrive nel saggio iniziale del catalogo edito da Giunti, riccamente e nitidamente illustrato, il professor Sales, il nome Mesopotamia, “terra tra i due fiumi” è greco e risale allo storico Arriano (II secolo d.C). Forse nato su antecedenti in lingua aramaica, il termine indica l’intera area tra i bacini idrografici dei due maggiori fiumi, Eufrate (ad Ovest) e Tigri (ad Est). Corrisponde alle realtà politiche odierne dell’Iraq e del Kurdistan per interi, ma anche della Siria nord-orientale e in misura più ridotta della Turchia meridionale, dell’Iran Occidentale e del Kuwait. In questa regione, quasi in contemporanea con l’Egitto, nacque intorno al 3.200 a.C. per la prima volta la scrittura, definita “protocuneiforme” (un insieme organizzato di simboli e disegni che rappresentavano oggetti diversi e numeri), che si sarebbe espansa a vasto raggio. Sembra che l’avvio sia stato dettato da ragioni primarie e pratiche di contabilità e di amministrazione quotidiana. Il sistema di scrittura, messo a punto dai Sumeri, che insieme agli Accadi erano il popolo più antico, è chiamato cuneiforme, dalla forma di cunei o chiodi dei segni, incisi su tavolette di argilla con uno stilo di canna, e si sarebbe applicato nei millenni successivi anche a lingue diverse (il babilonese e l’antico persiano).

E’ da rimanere sbalorditi, nell’ammirare una collezione d’altri tempi, straordinaria non solo per entità, qualità e importanza storica dei materiali, ma perché testimonia un collezionismo rispettoso dei luoghi che pure Giancarlo Ligabue studiava, e delle istituzioni, della ricerca e del sapere, diretto a preservare la memoria e non a defraudare le culture con altri fini. Ci sono in prevalenza tavolette cuneiformi di dimensioni ridotte (anche solo due o tre cm. per fare un esempio) e sigilli cilindrici o a stampo decisamente affascinanti; ma anche sculture, placchette, armi, bassorilievi, vasi e intarsi che hanno permesso agli studiosi di ricostruire le vicende  di re e mercanti, scribi e sacerdoti, eroi mitici e persone comuni. A questi oggetti si affiancano prestiti importanti del Museo Archeologico di Venezia – bellissimi frammenti di bassorilievi rinvenuti dallo scopritore della mitica Ninive, Austen Henry Layard (1817-1894), il quale nel 1875 donò i suoi oggetti alla città, dopo essersi ritirato proprio a Venezia nell’ultimo periodo della sua vita, a Palazzo Cappello Layard – e del Museo di Antichità di Torino : un frammento di bassorilievo assiro fortemente iconico raffigurante il re Sargon II, scoperto nel 1842 da Paul Emile Botta (1802-1870) (in agguerrita competizione con il più giovane Layard), console di Francia a Mosul, e da lui donato al re Carlo Alberto.

Poiché la tecnologia  domina la vita quotidiana, i reperti dialogano con ologrammi, scansioni tridimensionali, riproduzioni di oggetti, con stampanti 3D, che permettono di illustrare e percepire dettagli piccolissimi, rendendo gli oggetti esposti visibili e godibili a tutto tondo, mentre antichi volumi storici diventano   virtualmente sfogliabili. Oltrepassato il pianoterra, dove sono collocate le aule dedicate ai laboratori didattici, della durata di circa 75 minuti,  “Vivere in Mesopotamia”, rivolti alle scuole primarie  e secondarie di primo grado, si sale un monumentale, marmoreo scalone, che conduce alla prima sala (della polifera), con uno spazio introduttivo ai luoghi dell’esposizione – La Mesopotamia dove e quando – narrati attraverso mappe e suggestioni. Nella seconda sala ecco i “capitoli” “Dal disegno al segno” e “Varietà di testi, lingue e scritture”. Tra i banner di approfondimento, quelli laterali raccontano l’evoluzione nei secoli dei segni: dal pittogramma al cuneiforme. La terza sala ha come temi “Il lavoro dello sfragista”, l’intagliatore di sigilli, “I materiali dello sfragista e dello scriba” e “I sovrani e le loro gesta”. Qui viene riproposto anche un estratto di una puntata di Superquark di RAI1 nella quale Alberto Angela da Palazzo Erizzo, sede allora del Centro Studi e Ricerche Ligabue, oggi della Fondazione Giancarlo Ligabue, illustra l’apertura di una busta in terracotta contenente una tavoletta di 40 secoli fa, un oggetto unico e preziosissimo, esposto in una piccola teca. La quarta sala racconta “L’uomo e gli dei in Mesopotamia”, “L’uomo comune: vita, prosperità e salute”. La quinta ed ultima sala è dedicata a “La decifrazione delle scritture in Mesopotamia”. Un tavolo ospita oggetti scientifici, antichi tomi sono affiancati a volumi digitali sfogliabili dal visitatore.

Ben realizzato, curato da Adriano Favaro, il catalogo si avvale di approfonditi saggi, in prevalenza scritti dal professor Fales e dalla archeologa Roswitha Del Fabbro. Lo scopo è quello di riproporre quei momenti di riscoperta di civiltà e culture che ritornano in pieno contatto con i loro eredi. Lascio dunque alle parole del curatore, l’ultima riflessione sulla mostra. “Chi avrà tempo e voglia di avvicinarsi ad un mondo distante più di cinquemila anni si sorprenderà perché incontrerà le matrici di vicende che conosce già, esplorerà e affiancherà quei mondi che poi vengono raccontati dalla Bibbia o dalla mitologia greca. Riandare a quelle radici storiche significa anche capire le forme iniziali di quelle culture che sono transitate nel nostro mondo, sviluppandosi, come spiega lo storico francese Jean Bottéro nel saggio “La nascita dell’Occidente”, che ricorda come nei testi del mondo mesopotamico si trovi “il primo abbozzo serio di quello che, ripreso, amplificato, approfondito e organizzato più tardi dai pensatori greci, diventerà lo spirito scientifico; il primo abbozzo di quella scienza e di quella ragione di cui ancora oggi teniamo molto”.