Si salva l’Alto Adige. Nemmeno la “rossa” Emilia Romagna dà soddisfazione ai vertici del PD
La chiusura delle urne del referendum costituzionale ha riservato una botta politica davvero brutta ai vertici del PD, al suo segretario e premier Matteo Renzi e alla sua vice nazionale e presidente della regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani. Per non dire di tutti coloro che hanno sostenuto con stoica abnegazione le ragioni del “Sì” come i vertici delle province autonome di Trento (Ugo Rossi) e di Bolzano (Arno Kompatscher).
Davvero difficile, ad urne chiuse, trovare scusanti, visto che la sconfitta è di dimensioni ampissime, specie in realtà come il Friuli Venezia Giulia, dove il “Sì” chiude al di sotto della media nazionale, mentre in Emilia Romagna riesce a prevalere risicatamente sul “No” per una frazione percentuale (50,39 contro il 49,61). Netta l’affermazione del “No” in Veneto con il 61,94% del totale e in provincia di Trento (ad oltre il 54%), mentre in provincia di Bolzano il “Sì” vince nella media provinciale ma perde decisamente nelle realtà dove gli italiani sono in maggioranza.
Se a livello nazionale tutta la situazione è nelle mani del Presidente della Repubblica che dovrà decidere se rinviare il governo Renzi alle Camere per un voto di fiducia o nominare un governo ponte in attesa delle elezioni politiche anticipate nella prossima primavera, a livello locale crescono le tensioni sui vertici dei governi locali da parte dei vincitori del referendum. In Friuli Venezia Giulia le opposizioni di centro destra hanno chiesto alla Serracchiani di trarre le conseguenze della palese sconfitta, amplificata dal suo duplice ruolo di vice segretaria nazionale del PD e di presidente della regione, interrompendo a tre anni dalla sua elezione la sua esperienza di amministratrice regionale. Stesso discorso in provincia di Bolzano, dove le opposizioni hanno chiesto a Kompatscher di imitare Renzi e di trarre le conseguenze del suo pieno ed incondizionato appoggio alla causa del “Sì”. Anche sul fronte trentino, a finire sulla graticola sono i vertici del Patt (il Partito autonomista trentino tirolese), il segretario e senatore Franco Panizza e il presidente della provincia Ugo Rossi, che sono stati delegittimati dal voto popolare dopo la loro campagna tutta a favore del “Sì”.
L’errore di fondo che ha portato alla débâcle renziana sta tutta nelle modalità di condotta della campagna referendaria, dove il premier ha giocato il tutto per tutto, almeno inizialmente, su un giudizio sul suo operato politico, salvo accorgersi tardi che la personalizzazione dell’oggetto della consultazione è stata un grave sbaglio politico. C’è poi la questione di come è stata proposta la riforma, in modo decisamente abborracciato, con contenuti spesso poco omogenei e coordinati tra loro e di difficile intellegibilità. Circa la necessità di aggiornare la Costituzione non ci sono dubbi, ma c’è modo e modo per farlo. La strada maestra sarebbe l’istituzione di una Costituente, eletta a suffragio diretto con il proporzionale, composta da un centinaio di persone al massimo con il compito di discutere e deliberare entro un anno dalla sua nomina sui progetti di riforma che, una volta approvati a maggioranza semplice, entrano automaticamente in vigore. La nomina di una Costituente (che lavori parallelamente alle nuove Camere da eleggere al più presto, ma con una netta separazione di mandato e di competenze) è la via maestra per arrivare ad una riforma delle regole basilari del Paese.