Il Trio di Bianca Gismonti al Cotton Club di Tokyo

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bianca gismonti trio
La pianista e cantante carioca impegnata in un recital molto gradito dal pubblico locale

di Giovanni Greto

 

bianca gismonti trioNon sempre i figli d’arte, seguendo le orme dei padri, riescono ad imporsi all’attenzione di critica e pubblico. Per fare due esempi di cantanti brasiliane, rimanendo nel Paese della musicista protagonista di questo breve excursus, Ana Martins, figlia della cantautrice Joyce e vista anni addietro al Blue Note di Tokyo, aveva destato non poche perplessità. Viceversa Maria Rita, figlia di Elis Regina, ascoltata su disco e vista sul web, sembra aver assorbito parecchie qualità dalla stimata madre. Bianca Gismonti, figlia di Egberto, geniale ed originale compositore ed interprete, capace di spaziare in differenti ambiti musicali, ha iniziato a studiare il pianoforte a nove anni e già a quindici girava per il mondo con il padre.

Dopo dieci anni di carriera con il duo di pianoforti “Gisbranco” (lei e Claudia Castelo Branco), che hanno portato all’incisione di due CD, “Gisbranco” (2008) e “Flor de Abril” (2011), da quattro anni la pianista e cantante carioca ha messo in piedi un classico trio (pianoforte, basso, batteria) a suo nome, il “Bianca Gismonti trio”. Nel frattempo sono usciti due CD, “Sonhos de Nascimento”, nel 2013 e “Primero Cèu” nel settembre scorso. Entrambi contengono undici tracce. Il primo è stato inciso nel 2012 da lei assieme al marito, il batterista e percussionista Julio Falavigna, e ad una serie di musicisti amici, tra i quali  il bassista elettrico Antonio Porto, che di lì a poco sarebbe confluito nel BG trio. Il secondo, inciso tra il dicembre del 2014 e il febbraio del 2015, vede protagonista il trio, affiancato in alcune tracce, da pochi “invitati speciali”, di modo che risulta più evidente il lavoro omogeneo del gruppo, che è ritornato in Giappone per tre concerti, il primo a Fukuoka, gli altri due al “Cotton Club” di Tokyo, locale prestigioso, nato dopo lo storico “Blue Note” e ad esso collegato.

Come sempre, sono previsti due set giornalieri, il primo alle 18.30, il secondo alle 21.00. Opto per il primo set del primo giorno. Non c’è il tutto esaurito, ma, come consuetudine, il pubblico è attento e arriva abbastanza prima se vuole mangiare, per non turbare l’acustica dell’ambiente. Il set è molto breve (59 minuti che si allungano a 64 con il bis), per scelta della direzione del locale, visto il tempo necessario perché gli spettatori si mettano in coda davanti alle casse, per pagare prima di andarsene, mentre già quelli accorsi per il secondo set stanno aspettando nell’anticamera del locale.

Le luci si abbassano ed ecco la sorridente Bianca dirigersi con i compagni verso il piccolo palcoscenico. Prima di partire con la scaletta, manifesta la propria gioia di essere ritornata in un locale e in un paese che l’avevano accolta con tanto affetto. Sei dei nove brani previsti sono sue composizioni, ad iniziare da “Quer vir junto?”, l’unico a non essere inserito in nessuno dei due album, tuttavia ben visibile sul web in una situazione “live”, con percussioni e sax soprano. Qui, non essendoci gli strumenti, spetta alla voce, non con le parole, ma con il tipico fraseggio sillabico, esemplificare il tema. Dopo una prima fase lenta, atemporale, il brano si vivacizza grazie ad un’accelerazione su di un tempo Latin/Funk. Il bassista esegue un solo contemporaneamente ad una vocalizzazione, come accade spesso negli assolo dei contrabbassisti Jazz. Falavigna, a questo punto, innesca un Samba-Batucada, quello delle scuole di samba e dei gruppi esclusivamente di percussioni, morbido e incisivo nello stesso tempo, concludendo ariosamente la composizione.

Dal repertorio paterno, Bianca sceglie come primo brano “Palhaço”. L’inizio è lento, affidato soltanto al pianoforte. Il basso tace, mentre Falavignia crea un’atmosfera misteriosa con i mallets (le bacchette con la punta rotonda, ricoperta da feltro o materiale morbido, quelle dei timpanisti, per intendersi), che estraggono la sonorità profonda dei piatti. A poco a poco il brano, dolce e malinconico, si evolve, entra il basso, un fruscio di spazzole si espande, il fraseggio del piano si fa più classico. C’è spazio per una breve accelerazione con un’alternanza di spazzole e bacchette, prima di ritornare al tempo lento dell’inizio.

Brevissima, invece, l’esecuzione, quasi soltanto tematica, di “Sete aneis”, la seconda composizione di Egberto Gismonti. Dopo un inizio molto lento e melodico al pianoforte, il brano acquista respiro da un Baiao sambeggiante, un ritmo che spesso affiora nei suoi pezzi. 

Molto brillanti, accattivanti e stimolanti il corpo a muoversi, i due brani originali tratti da “Sonhos de Nascimento”. Il primo, “Entre amigos”, inserito tra i due pezzi del padre, è un afro-latin-funk. Nel disco ci sono percussioni, congas in primo piano, e una sezione fiati (trombone, flauto e flicorno). In trio si cerca di sopperire alla mancanza mediante il vocalismo di Antonio Porto, che quasi tratteggia la dizione dei fiati, e un lungo assolo di batteria nel ricco drum set allestito da Falavigna, il quale decide di aggiungere alla sua sinistra dopo l’Hi-Hat, un secondo snare drum, più acuto, che riproduce il suono di un timbale. Il secondo, “festa do Carmo”, è il gioioso pezzo scelto come bis, un omaggio di Bianca alla città natale di Egberto, ‘Carmo’. Un altro bel Baiao sambeggiante, incalzato da un fraseggio ritmico e dinamico sulla parte bassa della tastiera del pianoforte, che si ripete ciclicamente, ricordando alcune felici composizioni del padre.

Tra i pezzi tratti da “Primero cèu”, “Para Inès acordar sorrindo” è aperta dalla batteria, mentre il bassista intona quasi un lamento. Ritmi tradizionali, tipici del Brasile, affiorano a poco a poco, finché Bianca, abbandonato il pianoforte, si avvicina ai colleghi con un Ago-gò, ossia una coppia di campane intonate. Esegue un ritmo di Ijexà-maracatù, di derivazione nordestina, dimostrando dimestichezza e amore per le percussioni, che traspare anche dal fraseggio sulla tastiera.

Una segnalazione particolare merita “Agua de beber” di Antonio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes, che è anche la traccia conclusiva del CD. Bianca la esegue senza i colleghi. Un pedale melodico-armonico, diverso dall’originale, ed uno Scat ritmico, proseguono a lungo ad libitum. Tutti si chiedono che brano stiano ascoltando, finché l’enigma si svela, perché Bianca inizia a cantare le parole della canzone. Molto brava a costruire, come lei stessa l’ha presentata, questa versione pazza (“Crazy”) di un pezzo troppo famoso, plurinterpretato. E anche saggia: che significato avrebbe avuto una riproposizione scolastica, fedele alla versione originale?

Applausi generosi salutano con affetto un buon trio, affiatato ed armonioso. Segnalo che Julio Falavigna ha percosso una batteria Canopus, fornita dal locale, un marchio artigianale giapponese, sempre più apprezzato da batteristi famosi. Sono invece suoi i cinque piatti Istanbul (due Ride ed un Crash), fabbricati in Turchia e contraddistinti da un suono cupo ed oscuro. Normalmente lui suona una batteria Yamaha, ma si è detto soddisfatto dello strumento assegnatogli. Antonio Porto ha adoperato uno strumento a sei corde. Il suono emesso, pastoso e assai nasale, ricordava a tratti quello del mitico Jaco Pastorius. Bianca Gismonti rivela un tocco personale. Sembra poter affrontare senza difficoltà qualunque genere con cui venga a contatto, forte di una base classica e di un patrimonio di ritmi e canzoni tradizionali di cui è ricca la MPB, “Musica popular brasileira”.

Foto Cotton Cub Giappone, di Yuka Yamaji