Trivelle in mare, un referendum strumentalizzato per mere questioni di potere politico

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Il responsabile ambiente del Pd Veneto invita all’astensione. Dus e Pricolo: «nodi ambientali già risolti. Restano solo i rischi economici»

 

petrolio impianto trivellazione golfo messicoUno schema che troppo spesso si ripete: l’utilizzo di vicende istituzionali ai fini della battaglia politica. Ci stiamo prendendo dei rischi industriali ed economici rilevanti perseguendo fini di potere per questioni cruciali come quelle energetiche.

La strumentalizzazione referendaria è una tecnica che non dovrebbe mai essere applicata da chi è classe dirigente. Nel dibattito che si sta svolgendo non ritroviamo posizioni che mettano adeguatamente in luce né la dipendenza energetica italiana, né i problemi dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Mezzogiorno italiano, già disastrato: ritroviamo echi di una vera e propria cultura anti industriale.

La direzione regionale del Partito Democratico del Veneto ha preso atto delle diverse posizioni esistenti in merito alla consultazione referendaria del prossimo 17 aprile e ha conseguentemente ritenuto di lasciare libertà di voto agli iscritti e ai simpatizzanti. Avremmo preferito una posizione più netta, ma diamo atto che non è stata adottata la posizione di chi voleva un pronunciamento a favore del sì e che è stato chiaramente richiamato il complesso percorso legislativo e il negoziato con le Regioni attraverso il quale gli iniziali sei quesiti si sono ridotti ad uno solo.

L’operato del gruppo parlamentare del PD  in sede di conversione dello “Sblocca Italia” e nella legge di Stabilità 2016 ha contribuito a far si che venissero accolte le preoccupazioni di natura ambientale e di rispetto delle competenze delle Regioni che avevano motivato la proposizione dei quesiti referendari. Infatti, restano vigenti tutte quelle norme che assicurano maggiori garanzie ambientali nel rilascio del titolo concessorio unico e viene cancellata definitivamente la possibilità di fare nuove trivellazioni nelle aree marine protette e nel raggio delle 12 miglia, anche per quanto riguarda i procedimenti in corso (cioè le istanze presentate o in fase anche avanzata di istruttoria ma non ancora concluse), fatti salvi solo i titoli abilitativi già rilasciati per la durata della vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale – oggetto questi ultimi del referendum. Non stiamo quindi parlando, né di nuove concessioni, già vietate entro le 12 miglia; né di perforazioni sulla terraferma; né di concessioni oltre le 12 miglia. Stiamo parlando di 9 concessioni su cui il permesso è già scaduto e che hanno richiesto la proroga e altre 17 i cui permessi scadranno dal 2017.

Un quesito quindi dalla portata molto limitata e che non ha nulla a che vedere con le tristi immagini dei volatili con le ali inzuppate di petrolio o con i pesciolini che chiedono un mare più pulito.

In caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno – di far perdere il lavoro a circa 30.000 addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese.

A chi sottolinea che votando “Sì” si darebbe al Governo un segnale di orientamento rispetto alle politiche energetiche, vogliamo ricordare, ad esempio, che già in Italia i consumi sono alimentati per il 17,3%  da energie rinnovabili un livello superiore alla media europea pari al 16% (dati 2015). L’Italia ha quasi agganciato gli obiettivi Europa2020 con tre anni di anticipo. Un altro dato: nel cosiddetto “mix elettrico” (dati 2014), per l’Italia abbiamo il 34,9% di produzione da gas e il 13,2% da carbone, mentre in Germania il gas naturale sta al 6,6% e il carbone al 46,9%.

Tralasciando il merito tecnico del quesito, che richiederebbe spazi più estesi di questo, vogliamo ribadire la legittimità politica dell’invito all’astensione, una delle opzioni possibili secondo il PD Veneto e l’opzione preferita dalla segreteria nazionale del partito. Non si tratta di incoraggiare la non partecipazione e il disinteresse dei cittadini, né di non informarli. Anzi. Si tratta di informare e far comprendere l’irrilevanza e inutilità di questo specifico quesito referendario, rafforzando la contrarietà di merito con un ulteriore messaggio: la strategia energetica di un Paese non può essere determinata dal “Sì” o “No” rispetto ad una questione di portata limitata.

La scelta consapevole dell’astensione, al di fuori di ogni retorica sulla partecipazione, non solo è legittima dal punto di vista giuridico (se non lo fosse, perché il costituente avrebbe previsto un quorum partecipativo per la validità del referendum?) ma lo è anche da quello politico. Lo strumento referendario costituisce un’eccezione rispetto ai principi della democrazia rappresentativa; un’eccezione importante che, in effetti, più che derogare, fa da complemento alla democrazia rappresentativa per questioni dirimenti e realmente sentite dalla popolazione. Il quorum esiste perché deve essere la maggioranza degli elettori, e non una minoranza, a correggere il Parlamento, abrogando una legge da esso decisa. Quindi chi si astiene sta semplicemente dicendo che vuole che sia il Parlamento a pronunciarsi, in maniera organica e completa, su una certa materia, al di là di segnali e orientamenti quanto mai vaghi e facilmente manipolabili.

Ultimo ma non meno importante, non ci sfugge la coloritura politica che sta assumendo questo referendum. E ci sentiremmo francamente a disagio a festeggiare una eventuale vittoria del Sì insieme a chi pensa che il nostro Partito e questo Governo siano “nelle mani dei petrolieri”.

 

Marco Dus, responsabile ambiente Segreteria regionale PD Veneto

Benedetta Pricolo, componente Direzione regionale PD Veneto