Viaggio in omaggio ad Henriette Adèle Elisabeth Nigrin Fortuny nel campo tessile
Di Giovanni Greto
Il progetto espositivo “Inverno a Palazzo Fortuny” (19 dicembre 2015 – 13 marzo 2016), proposto dalla Fondazione Musei Civici di Venezia, è un viaggio nato per rendere omaggio e giustizia al ruolo fondamentale che Henriette Adèle Elisabeth Nigrin Fortuny svolse nel campo delle creazioni tessili e nella gestione del laboratorio-atelier di Palazzo Pesaro degli Orfei.
Ma “Ritratto di una musa”, curata da Daniela Ferretti, direttore del Palazzo, con Cristina Da Roit, è solo la prima di quattro mostre che vedono protagoniste straordinarie personalità femminili: Romaine Brooks (dipinti, disegni, fotografie), Sarah Moon (omaggio a Mariano Fortuny), Ida Barbarigo (Erme e Saturni). Il viaggio parte dalla fine dell’800, attraversa la Belle Epoque e gli anni Venti del Novecento e si conclude ai giorni nostri, raccontando la modernità attraverso gli acuti e sensibili occhi femminili.
“Henriette Fortuny. Ritratto di una musa” è il frutto del lavoro di ricerca, riordinamento e manutenzione effettuato nel corso del 2015 sulle collezioni del museo Fortuny. Da un corpus di oltre dodicimila originali, tra lastre di vetro alla gelatina e pellicole in celluloide, sono state selezionate duecento fotografie, sottoposte a un importante intervento conservativo e archivistico. A questo si è aggiunto il riordinamento e l’informatizzazione della raccolta delle matrici per la stampa su tessuto, grazie al quale si è potuto partecipare, pezzo dopo pezzo, al processo creativo che diede origine ai motivi decorativi e alle realizzazioni tessili dell’atelier di Palazzo Pesaro degli Orfei. In questa occasione, inoltre, sono per la prima volta visibili al pubblico alcuni filmati amatoriali girati negli anni ’30 da Mariano Fortuny. Sono materiali filmici ritrovati recentemente, costituiti da pellicole in formato pathè baby e 35 mm., sui quali è stata eseguita, grazie al contributo della Maison Vuitton, un’operazione di restauro tecnico e riversamento in digitale ad opera dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e dei laboratori La Camera Ottica e Crea dell’Università degli studi di Udine. Tra le innumerevoli ricchezze esposte nel salone al primo piano è visibile, sia in numerose foto, che in dimensione reale, il Delphos, l’abito ideato da Henriette in finissimo satin di seta, ispirato stilisticamente alle tuniche della scultura ellenistica classica dell’Auriga di Delfi, che di solito veniva indossato con una cintura in raso o taffetà di seta stampata con motivi derivanti anche in questo caso dalla cultura ellenica classica o minoica.
Una mostra emozionante, da guardare con calma, sostando a lungo accanto ad ogni dipinto, disegno o fotografia è quella di Beatrice Romaine Goddard Brooks, la prima in assoluto in Italia dedicata all’artista. E’ l’occasione di riscoprire quella comunità trasgressiva, raffinata e cosmopolita che animò, tra Parigi, Capri e Venezia, i più sofisticati circoli culturali della Belle Epoque. Il suo mondo interiore, sempre in bilico tra la luce e la tenebra, attraverso i disegni, porta in superficie mostri, bestie dalle forme grottesche anche se eleganti, fantasmi, larve, ectoplasmi. Sono le ossessioni e i demoni di un’artista di valore che, durante tutta la sua lunga esistenza, si è sempre sentita una straniera e una “lapidata” in ogni luogo nel quale ha vissuto.
Passando a commentare i dipinti, la Brooks, influenzata inizialmente dalla pittura di James Abbott McNeill Whistler (Massachusetts, 11 luglio 1834 – Londra, 17 luglio 1903), trova ben presto il suo stile originale, caratterizzato dall’infinita varietà di grigi e rosa spenti della sua tavolozza e della straordinaria capacità di catturare l’anima dei suoi soggetti. Tra i suoi lavori, rimane indimenticabile “La Primavera” (1911-1913), un’opera sacrale che vede trasfigurata nei panni della figura mitologica di Persefone la danzatrice russa di origine ebraica Ida Rubinstein (1885-1960), stella dei “ballets russes” di Sergej Djagilev, ritratta in una serie di nudi (16, per la precisione) scattati dalla Brooks tra il 1914 e il 1917 nel suo appartamento parigino nero, grigio e bianco dell’avenue du Trocadéro.
Al secondo piano del Palazzo si può vedere l’omaggio a Mariano Fortuny della celebre fotografa Sarah Moon (Parigi, 1941). Il suo curriculum recita che dopo una breve parentesi negli anni ’60 come modella di alta moda, nel 1968 diventa fotografa indipendente e lavora per l’editoria, per la pubblicità, prima donna a scattare nel 1972 le fotografie per il calendario Pirelli. Il 1985 è l’anno di svolta della carriera. Amplia gli orizzonti del suo sguardo, si dedica alla costruzione di un universo introspettivo, soffermandosi in particolare su tre temi: l’evanescenza della bellezza, l’incerto e lo scorrere del tempo. Le luci tenui dell’inverno lagunare che penetrano dalle ampie vetrate, le pieghe, le volute e i giochi di rifrazione create dai tessuti e dai panneggi degli abiti ideati da Mariano Fortuny sono fonte d’ispirazione per questo nuovo progetto espositivo, a cura di Alexandra de Lèal e Adele Re Rebaudengo, che la grande fotografa ha costruito nel corso degli anni, durante le frequentazioni della casa-laboratorio di Palazzo Pesaro degli Orfei.
La mostra che accoglie il visitatore, una volta varcata la soglia del palazzo, è quella di Ida Barbarigo, “Erme e Saturni”. Figlia di Livia Tivoli, poetessa e pittrice e del pittore Guido Cadorin, discendente da un’illustre famiglia di artisti – i Cadorin sono una dinastia di pittori, scultori e architetti, originari del Cadore, presenti nella Serenissima con la loro bottega d’arte già dal XVI secolo – la Barbarigo vive e continua a lavorare nella casa atelier di Palazzo Balbi Valier. A Palazzo Fortuny presenta, a cura di Daniela Ferretti, una selezione accurata di opere appartenenti a due serie realizzate nell’arco di due decenni tra il 1980 e la fine degli anni ’90.
«Le Erme – rivela l’artista stessa nel saggio di Luca Massimo Barbero contenuto nel catalogo edito, come per gli altri tre, dalla Fondazione Musei Civici – sono quelle immagini che in mezzo ai deserti vari, di varie epoche, di tutte le rovine, le guerre, i conflitti, tu le ritrovi sotto forme maschili o femminili ma comunque significative, in qualche angolo, sole ferme. Sono quello che resta!» E i Saturni? Secondo l’Autore «per me Saturno è un modo, un modo “saturnino”, cercare d’evitare il peso di ogni lagnanza. Saturno piange, e ciò gli dà un suono, una tinta, ma io devo soprattutto divertirmi, dipingere, cercare. In fondo non voglio rendermi conto delle scelte di questi nomi, dei personaggi, perché francamente navigo con questi nomi, mi precipita in un viaggio perché ognuno mi piace e non prendo però sul serio nessuno di loro».