L’ultimo appuntamento della XI edizione del festival chiude in bellezza
Di Giovanni Greto
Non essendo un concerto da stadio, ha sorpreso la lunga durata del set unico nell’esibizione del quartetto Volcan, ultimo appuntamento al teatro Zancanaro di Sacile dell’XI edizione de “Il volo del Jazz”, rassegna curata come al solito dal circolo Controtempo di Gorizia.
Un concerto come non se ne vedeva da tempo, quello dei quattro musicisti latinoamericani – tre cubani ed un portoricano – guidati sapientemente dal pianista Gonzalo Rubalcaba, il quale riesce a far sue canzoni altrui, siano esse tradizionali o di celebri jazzisti che non ci sono più (Dizzy Gillespie, Charlie Haden), di grandi esponenti del Latin-Jazz (Chucho Valdes), della Musica Popolare Brasiliana (Chico Buarque de Hollanda), senza tralasciare le composizioni originali.
Dopo aver esordito con un proprio brano, “Volcan”, per far capire il tipo di musica che avrebbe riscaldato la serata friulana, Rubalcaba ha ringraziato in spagnolo gli organizzatori, accantonando l’universale inglese avvicinandosi ancor di più al numeroso pubblico presente, per come il gruppo è stato coccolato, avvolto cioè da mille affettuose attenzioni. Si spiega forse così la gioia di suonare in una serata dilatatasi con ben tre bis e che sarebbe potuta continuare ad libitum, visto il felice rapporto instauratosi con la platea.
Alternando il pianoforte acustico Fazioli ad un sintetizzatore Korg dalle mille sonorità (del quale però, unica nota un po’ stonata, se ne sarebbe potuto volentieri fare a meno), Rubalcaba ha stimolato i valenti partners – Josè Armando Gola al basso elettrico fretless a sei corde, Giovanni Hidalgo alle congas e ai timbales, Horacio “El Negro” Hernandez alla batteria – in maniera tale che il quartetto desse il meglio di sé. Una segnalazione di merito è da attribuire alla strepitosa coppia ritmica. “El Negro”, oltre ad un campanaccio colpito con la bacchetta nella mano sinistra, ha padroneggiato l’uso di un doppio pedale che percuoteva il “bass drum” ed un altro campanaccio. Una dimostrazione di poliritmia ed indipendenza mai viste, almeno finora, in situazioni dal vivo.
Nei suoi assolo, in cui spesso compaiono tempi dispari difficili da assimilare, c’è la capacità di essere irruento senza oltrepassare il giusto limite sonoro e di spaziare con precisione dal fortissimo al pianissimo, quasi un sussurro, un respiro delle pelli o dei piatti. E poi c’è Giovanni Hidalgo che, non potendo percuotere quella sera le congas con le mani avendo un dito di ogni mano ferito, ha usato due grossi bastoni di dimensione simile alle “Claves”, quasi fossero un prolungamento delle braccia. Fantasioso, Hidalgo capisce subito come inserirsi in un brano fin dalle prime note, esprimendo il suo gioioso piacere di suonare. Passa con eleganza da un lento “tumbao” a metronomi impazziti, mantenendo sempre un’impassibile rilassatezza. I suoi assolo sono inoltre melodici, al punto che paiono più percussivi quelli di Rubalcaba. Nella scaletta di nove brani (sei più tre bis), la simpatica “Salt Peanuts” di Dizzy Gillespie, l’elegiaca commovente “First Song” di Charlie Haden e la malinconica “Ano Novo” di Chico Buarque, che ha posto fine ad una serata che molti presenti conserveranno a lungo in memoria.