Il ceto medio produttivo arranca. Dal 2008 ad oggi la contrazione percentuale del numero delle partite Iva è stata doppia di quella dei lavoratori dipendenti. Pesa la crisi di liquidità che limita incarichi e commesse
La povertà continua a colpire soprattutto i lavoratori autonomi, doppiamente penalizzati dal non disporre di alcun ammortizzatore sociale quando si riduce il lavoro. L’anno scorso il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha vissuto con una disponibilità economica inferiore a 9.455 euro annui (soglia di povertà totale calcolata dall’Istat). Praticamente una su quattro si è trovata in una condizione di vita non accettabile.
Viceversa, la situazione economia è rimasta sostanzialmente stabile per le famiglie che vivono con reddito da pensioni/trasferimenti sociali e da lavoro dipendente: la percentuale al di sotto della soglia di povertà è stata inferiore. Per le prime, infatti, l’incidenza si è attestata al 20,9%, per le seconde al 14,6%.
Tra il 2010 e il 2014, la quota di nuclei familiari in cattive condizioni economiche è aumentata di 1,2 punti percentuali. Per i pensionati la povertà è scesa dell’1%, tra i dipendenti è aumentata dell’1%, mentre tra il cosiddetto popolo delle partite Iva l’incremento è stato del 5,1%, anche se va sottolineato che nell’ultimo anno la variazione è stata pressoché nulla.
Secondo il coordinatore dell’Ufficio studi dell’Associazione artigiani di Mestre che ha elaborato l’indagine, «purtroppo questi dati dimostrano che la precarietà presente nel mondo del lavoro si concentra soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Sia chiaro – dice Paolo Zabeo – la questione non va affrontata ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per darle agli autonomi, ma allargando l’impiego di alcuni ammortizzatori sociali anche a questi ultimi che, almeno in parte, dovrebbero finanziarseli». Zabeo allarga la sua riflessione: «quando un lavoratore dipendente perde momentaneamente il posto di lavoro può disporre di diverse misure di sostegno al reddito. E nel caso venga licenziato può contare anche su una indennità di disoccupazione. Un autonomo, invece, non ha alcun paracadute. Una volta chiusa l’attività è costretto a rimettersi in gioco affrontando una serie di sfide per molti versi impossibili. Oggigiorno è difficile trovare un’altra occupazione; l’età spesso non più giovanissima e le difficoltà congiunturali costituiscono un ostacolo insormontabile al reinserimento nel mondo del lavoro».
La Cgia fa notare che dall’inizio della crisi (2008) al primo semestre 2015, gli autonomi (ovvero, i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, i liberi professionisti, i coadiuvanti familiari, etc.) sono diminuiti di quasi 260.000 unità, pari al 4,8%. La platea dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotta di 408.400 unità, anche se in termini percentuali è diminuita “solo” del 2,4% cioè della metà.
Dall’inizio della crisi ad oggi, gli autonomi hanno segnato la contrazione peggiore in Emilia Romagna (-14,6%), in Campania (-13,7%) e in Calabria (13,3%). Di rilievo, invece, la performance ottenuta dal Lazio (+10,1%) e dal Veneto (+5,3%). «Non è da escludere – conclude Zabeo – che l’incremento registrato in Veneto sia in buona parte dovuto alle decisioni prese da molte aziende che, a seguito della crisi, hanno trasformato il rapporto di lavoro di molti dipendenti in forme di lavoro autonomo, invitando molte persone ad aprirsi la partita Iva. Nel caso del Lazio, invece, il dato si accompagna al contesto economico regionale, dominato dall’economia dei servizi che ha superato meglio le difficoltà di questi anni, permettendo una crescita e di conseguenza un deciso incremento occupazionale anche degli autonomi».
Per quanto concerne le quattro ripartizioni geografiche, tra il 2008 e il primo semestre di quest’anno la riduzione più importante si è verificata nel Mezzogiorno ed è stata del 7,5% (- 120.700 unità). Segue il NordEst con il -5,8% (-67.800 unità) e il NordOvest con il -5,3% (-82.500 unità). Solo il Centro ha segnato una crescita positiva dell’1% (+11.300 unità).
Infine, il reddito medio annuo delle famiglie con fonte principale da lavoro autonomo ha subito in questi ultimi anni (2008-2013) una riduzione di oltre 4.352 euro (-10,6%), mentre quello dei dipendenti è aumentato di soli 320 euro (+1%). In deciso aumento, invece, il dato medio annuo dei pensionati e di quelle famiglie che hanno beneficiato dei sussidi (di disoccupazione, di invalidità e di istruzione) che sono stati erogati ai nuclei più in difficoltà. In termini assoluti il ritocco all’insù è stato pari a 1.680 euro (+7,6%).
«Il forte calo della domanda interna ha contribuito in maniera determinante a peggiorare le condizioni economiche degli autonomi – segnala il segretario della Cgia Renato Mason –. Gli artigiani, i piccoli commercianti e i liberi professionisti nella stragrande maggioranza dei casi vivono dei consumi delle famiglie: il crollo di quest’ultimi ha causato una caduta verticale del fatturato di moltissime piccole attività e spinto alla chiusura tantissimi lavoratori autonomi. Si auspica che la ripresa dei consumi si consolidi nella parte finale di quest’anno e che il 2015 possa chiudersi con un numero di lavoratori autonomi superiore al 2014, come sembrerebbe intravedersi nei dati provvisori relativi al primo semestre». E le cose non sembrano volgere al meglio, vista la continua stagnazione dell’economia, come testimonia l’andamento dell’inflazione negativa nel mese di ottobre.