Notevole successo per il cartellone dei protagonisti dell’VIII edizione del festival
Di Giovanni Greto
Nel cartellone dell’ottava edizione del Venezia Jazz Festival, nonostante l’unico nome di spicco fosse solo quello di Ute Lemper, c’erano numerosi musicisti, alcuni poco conosciuti, che hanno presentato progetti interessanti. L’inaugurazione è spettata al trio “Istanbul Sessions”, guidato dal cinquantenne sassofonista tenore e compositore Lhan Ersahin, nato a Stoccolma da una famiglia turca. E’ una musica, la sua, che scatena un certo tipo di pubblico giovanile, ma non solo.
Il suo modo di presentarsi nella scelta degli abiti e del taglio dei capelli, rimanda a quello del pubblico giovanile del mitico festival di Woodstock. Molto funk, melodie arabeggianti, come nel brano iniziale “Bosforus”, qualche accenno jazzistico, un uso non massiccio dell’elettronica, il basso elettrico spesso volutamente in distorsione, un batterista che colpisce in maniera a tratti violenta, al punto che le bacchette si scheggiano, un volume sonoro spesso eccessivo. Queste le caratteristiche di un concerto al tramonto, collocato su uno zatterone in punta della Dogana, ascoltato godendosi la brezza che ancora soffiava nell’umida, afosa estate lagunare.
Il sassofonista tenore russo, anch’egli cinquantenne, Dimitri Grechi Espinoza, ha fatto tappa a Venezia con il progetto “OREB”, per strumento solo, frutto del suo studio da molti anni sul rapporto tra suono e spazio sonoro e sul suo significato spirituale. Nella chiesa di Santa Maria della Pietà, conosciuta come la chiesa di Antonio Vivaldi, Dimitri non ha potuto sfruttare il riverbero dell’edificio, ma si è dovuto aiutare con un apparecchio, fissando il riverbero a 11 secondi, leggermente più lungo, rispetto a quello di luoghi a riverbero naturale che si attesta sui 7 secondi. Nel recital, durato 45 minuti, il sassofonista ha eseguito parecchio materiale presente nel disco appena uscito, “Angel’s Blows” (Ponderosa Music&Art), registrato a Pisa nel battistero di San Giovanni «un’architettura sonora – afferma il musicista nelle note di presentazione del disco – per il compito che, come musicista, in quest’epoca mi sono preposto: contribuire a riportare alla sua originaria funzione di dialogo con il sacro, nel quale superare differenze di credo, distanze culturali e incontrare così sé stessi e gli altri nella conoscenza dell’Unità che lega l’intero ordine cosmico». L’unico brano jazzistico eseguito da Dimitri è stato una toccante improvvisazione su uno standard immortale di Thelonious Monk, “Round Midnight”. La sonorità calda del sax tenore è penetrata nel profondo degli ascoltatori, contribuendo forse alla riflessione sul proprio stile di vita, oltre a ricordare a volte quella di un gigante del Jazz come John Coltrane.
Due concerti su quattro ascoltati da chi scrive a palazzo Pisani, sede del Conservatorio Benedetto Marcello, facevano parte della rassegna “Maree sonore”, organizzata con l’istituzione veneziana e del progetto “E.M.A.Y.T.” (Europe Music Award for Young Talent), vetrina di valorizzazione di giovani talenti su scala internazionale, creata da Veneto jazz, che ha messo in rete alcuni importanti festival della scena europea. Il pianista umbro Giovanni Guidi, di cui è da poco uscito il secondo CD con il proprio trio euro-americano “This is the Day” e nel quale ci si delizia con l’inconfondibile suono ECM, ha proposto con la consueta eleganza e raffinatezza che lo contraddistinguono, un recital per pianoforte solo, seguito in silenzio da una platea attenta che ha apprezzato sia i momenti delicati, che quelli irruenti, la percussività nel tocco ed un’ispirazione particolarmente feconda.
Assai applaudito, di nuovo a palazzo Pisani, il quartetto del veterano flicornista e trombettista tedesco Uli Beckerhoff, – leader nella sua attività di un trio con John Marshall e Jasper Van’t Hof, nonché di un quartetto con John Abercrombie, Arild Andersen e John Marshall – ha legittimato una posizione di primo piano nel Jazz tedesco ed europeo, grazie a sonorità in cui sensibilità e forza risultano perfettamente equilibrate e complementari. Nel concerto, il gruppo ha eseguito 8 su 13 brani contenuti nel suo ultimo lavoro, “Heroes”, pubblicato dall’etichetta americana “Dot Time Records” e registrato a New York. Come nel disco, accanto ad Uli, che per 25 anni ha insegnato didattica jazz alla “Folkwang University of Arts” di Essen, ha bene impressionato un giovanissimo trio di talentuosi musicisti, scelti fra gli studenti del suo laboratorio. L’artista ha suonato maggiormente il flicorno, ricordando in “Bye Bye, Kenny”, Kenny Wheeler, il grande musicista recentemente scomparso, del quale egli era anche amico e che grazie a molti “Heroes” del jazz come Miles Davis, John Coltrane, Keith Jarrett et cetera, fu stimolato 45 anni fa ad intraprendere professionalmente la carriera musicale. L’unico brano in trio della serata, “Lokken”, del pianista Richard Brenner, ha messo in luce la sezione ritmica, completata da Moritz Gotzen al contrabbasso e Niklas Walter alla batteria.
Non poteva mancare tra le diverse sedi dei concerti una delle più apprezzate, la Collezione Peggy Guggenheim, nel cui giardino è stato invitato ad esibirsi il francese “Peirani & Parisien Duo Art”, composto dal fisarmonicista Vincent Peirani e dal sassofonista soprano Emile Parisien, originari rispettivamente di Nizza e di Tolosa. I due hanno suonato insieme per la prima volta nel 2009 nel quartetto “Swee & Sour”, capitanato dal batterista Daniel Humair, ma hanno deciso di esibirsi in trio solo dal 2012. Nei circa 80 minuti della loro esibizione, Peirani & Parisien hanno eseguito 8 temi, 6 dei quali contenuti nel CD “Belle Epoque”, uscito lo scorso anno per l’etichetta tedesca ACT. La scaletta è iniziata e si è conclusa con due pezzi del sassofonista Sidney Bechet, “Egyptian fantasy” e “Song of Medina (Casbah)”, quest’ultimo aperto da una lunga introduzione del soprano, assai ben costruita, meditata, lirica, sulla quale si è inserita con un ritmo penetrante, “orientale”, secondo le indicazioni dell’autore, la fisarmonica di Peirani. Il tema ha preso sempre più forza, è cresciuto grazie ad improvvisazioni via via più sanguigne ed incalzanti del soprano e della fisarmonica, quest’ultima felicemente in solitudine fino al ritorno del soprano per il tema finale esposto da entrambi. Nel repertorio hanno trovato spazio due brani originali, il malinconico “Hysm”, di Parisien e “Schubertauster” di Peirani, dapprima esposta come una “ballad lenta”, per poi aprirsi attraverso gli assolo e concludersi con il tema ripetuto ad libitum dai due strumenti, con delle sonorità che hanno fatto pensare ad un maestoso organo da chiesa. Il pubblico è rimasto coinvolto da un programma che ha spaziato dal jazz delle origini, alla musica popolare e a quella che rimandava ai compositori colti del XX secolo. Gustosi entrambi i due bis. Il primo, “Dancers in love”, di Duke Ellington, un accattivante omaggio al jazz orchestrale degli anni ’30 e ’40, ballabile, intriso di Swing, nella situazione dal vivo si è dilatato maggiormente rispetto alla versione incisa in studio, grazie a numerose, simpatiche ripetizioni che pareva non dovessero terminare mai. Il secondo bis, “Balkansky Coceck” si è inserito nel gioioso genere Klezmer, in questo caso della tradizione macedone, eseguito ad un metronomo velocissimo, che ha dato modo di evidenziare il virtuosismo dei due giovani musicisti. Alla fine, tanti applausi e tutti a complimentarsi, a dialogare, a scambiare pareri con Vincent ed Emile e ad acquistare, pretendendo le firme, il loro bel CD.
Il teatrino di palazzo Grassi, dove passano differenti e stimolanti situazioni musicali, ha ospitato un interessantissimo duo: la cantante salentina Maria Mazzotta e il violoncellista albanese, di Tirana per l’esattezza, Redi Hasa, ma residente dal 1998 nel Salento. La Mazzotta, ex cantante e solista del Canzoniere grecanico salentino, trasferitasi in Francia, ha impressionato per la facilità con la quale ha interpretato 15 canzoni in lingue diverse, dal griko, lingua delle antiche comunità grecaniche della Puglia, per “Maria”, dedicata alla madre di Dio, all’italiano (“Del cielo e della terra”), al montenegrino (Sladjano Moje, “dolcezza mia”), a “Krivo Horo”, la danza più importante della tradizione bulgara, difficile da padroneggiare per la presenza di molteplici tempi dispari che apparentemente sembrano portare ad un disordine musicale e nella quale la Mazzotta ha sfoderato uno “Scat” trascinante e fantasioso. Velocissima, arrembante, una versione di ‘Cicerenella’, popolarissima tarantella della tradizione campana del XVIII secolo – appartenente anche al repertorio di Peppe Barra -, che racconta la vivacità della cultura popolare con un testo irriverente. Si ritorna allo “Scat” nel brano “Ohri”, un originale di Redi Hasa. Maria canta anche in albanese nel tradizionale “Kno Mi QyQe”, il cui testo narra come mentre gli uccelli cantano l’arrivo della primavera, la fanciulla in breve tempo diventi una donna; in rumeno, nel bis conclusivo, “Dumbala Dumba”, un pezzo tradizionale brevissimo, che acquista velocità, fischiettato con un tentativo, in parte riuscito, di coinvolgere vocalmente la platea. Il concerto è stata anche l’occasione, per i musicisti, di far conoscere il loro recente CD, “Ura”, pubblicato da Finis terre. Il titolo è una parola presente con significati diversi, sia in albanese (“ponte”), che in salentino (“ora”), ed è stato scelto dai musicisti per costruire un ponte adesso tra tante lingue diverse, dimostrando come la diversità porti a creare un’armonia. Impeccabile il lavoro solistico e di accompagnamento di Redi Hasa, che ha imbracciato il violoncello come fosse una chitarra nei due brani finali, “Di rosso e di blu”, una preghiera originale per colorare il mondo e nel citato “Dumbala Dumba”. Non presenti nel CD, i due solisti hanno eseguito una toccante versione di “Cu ti lu dissi”, omaggio ad una grande artista che non c’è più, Rosa Balestrieri, la cui vita è stata segnata da tanta sfortuna e sofferenza ed una trascinante pizzica originale, “Il Pizzicone”, nella quale Maria Mazzotta ha percosso uno strumento essenziale per questo genere, la “Tamorra”. Applausi a non finire hanno premiato la generosità e la sincerità di due musicisti abili ad improvvisare e a far cambiare volto, ad ogni concerto, a composizioni fresche e piene di vita.