Grande concerto all’interno del cartellone di “Venezia Jazz Festival”
di Giovanni Greto
Se si potesse assistere ad un concerto come quello tenuto da Burt Bacharach e la sua orchestra al teatro la Fenice – all’interno del ‘Venezia Jazz Festival’ e de ‘Lo spirito della musica di Venezia’ – , ogni volta che ci si accinge ad ascoltare musica dal vivo, si ritornerebbe a casa felici e contenti, un sacco di motivi canticchiabili in testa, di buon umore se prima prevaleva il cattivo, più disposti a familiarizzare con il prossimo, invece di attaccar briga, adducendo come scusa il caldo eccessivo dell’estate.
La prima cosa a sorprendere è la vitalità di un musicista che ad 86 anni rimane per due ore sul palco a suonare il pianoforte, intrattenere il pubblico, dirigere e persino a cantare, in maniera confidenziale, certo, ma affrontando melodie spesso solo apparentemente semplici. Dal suo infinito repertorio, Bacharach ha selezionato 37 canzoni, 10 eseguite singolarmente, le rimanenti inserite in sei Medley, che andavano dalle due alle nove unità. Le più belle e conosciute c’erano tutte, a partire da “What the World needs now is Love”, un accattivante ¾ del 1965, fino a quello che è considerato il suo successo più grande, “Raindrops keep fallin on my Head”, uscito nel tardo autunno del 1969. E anche se sul palco non c’erano Dionne Warwick, Aretha Franklin, Etta James o Gene Pitney, i tre cantanti – Donna Taylor e Josie James, entrambe neroamericane, e John Pagano – hanno dimostrato indiscusse doti tecniche e professionali. Lo stesso discorso vale per i sette musicisti che componevano l’orchestra: i due tastieristi, Bill Canton e David Joyce, i quali, adoperando numerosi registri – dal piano elettrico all’organo, alle campane, ai flauti e agli archi, hanno sopperito egregiamente all’assenza di una sezione fiati ed archi più nutrita, a rappresentare la quale c’era una convincente Elisabeth Chorley al violino. In perfetta sintonia la coppia di fiati: Tom Ehlen al flicorno e alla tromba e Dennis Wilson ai sassofoni contralto, tenore, soprano e al flauto traverso. Entrambi hanno eseguito controcanti di ottima scelta alle voci, hanno esposto il tema dialogando con il leader, hanno dato vita ad assolo non lunghi, ma essenziali nell’economia di ogni pezzo. Attenta e precisa la sezione ritmica, David Coy al basso elettrico fretless, John Ferraro alla batteria e, in un brano, ai bongos.
A tutti i cantanti, seduti l’uno accanto all’altro in alti seggiolini di legno, Bacharach ha concesso un’equanime esposizione solistica, che ha permesso loro di ricevere scroscianti applausi da una platea sempre più affezionata, sorridente e soddisfatta, parte della quale sarebbe anche salita sul palco a ballare o a cantare insieme ai propri beniamini. Tra le canzoni interpretate in maniera solistica, è da citare per Josie James “Anyone who had a Heart”, una delle prime ad essere incisa, era il 1963, da Dionne Warwick, la voce perfetta per le composizioni di una coppia di artisti invidiata da tutti: il musicista Burt Bacharach e il paroliere Hal David, i quali, rimasti assieme fino agli anni ’70, diedero vita alle canzoni più amate ed impresse nel cuore e nella memoria degli appassionati. Trascinante la versione di “Waiting for Charlie”, all’epoca un successo di Etta James, grazie alla voce ricca di sfumature di Donna Taylor, perfettamente intonata, dotata di un istintivo senso del ritmo, a proprio agio a passare da note basse ad alte e con un sorriso smagliante che non l’ha abbandonata nemmeno un momento. Per John Pagano, due composizioni cronologicamente distanti: “Only Love can break my Heart”, il più grande successo di Gene Pitney, risale al 1962, idolo dei teenagers per il classico singhiozzo nella voce; “God give me strength”, un brano che appartiene al periodo più recente della vena compositiva di Bacharach, frutto, assieme ad altri 11, della collaborazione con Elvis Costello per l’album “Painted from memory” (1998), che fu inserito nella colonna sonora di “Grace of my Heart” (1996), una simpatica commedia musicale diretta da Allison Anders, in cui si narra il sogno di una ragazza di diventare una cantautrice di successo. La Medley conclusiva, la più lunga, dedicata a titoli inseriti nelle colonne sonore di film, ha permesso di far conoscere il lato sensibile di Bacharach, che ha interpretato, sottovoce e in solitudine, capolavori degli anni ’60 come “The look of Love”, “Alfie” e “A House is not a Home”.
Pensiero finale: perché le sue canzoni piacciono così tanto? Oltre che per la qualità degli arrangiamenti e la scelta degli strumenti, forse soprattutto perché hanno in sé una parte malinconica accanto ad una romantica, col rischio di cadere nello sdolcinato, nell’eccessivamente zuccheroso? Ma non sarà che ognuno di noi attende il momento più opportuno per lasciarsi cullare da melodie capaci di provocare sensazioni dolci come quelle provate quando non ci si ferma più nell’assaporare ad occhi chiusi una tavoletta del cioccolato più gustoso?