“Jazz&Wine of Peace Festival” 2012

0
394
Il festival goriziano vanta sempre un notevole afflusso di pubblico
di Giovanni Greto

Il primo concerto, pomeridiano, a Gradisca d’Isonzo (Ray Anderson-Marty Ehrlich Quartet) in un salone totalmente occupato dell’enoteca la Serenissima, ha scatenato l’entusiasmo dei presenti, alcuni dei quali, purtroppo, costretti a rimanere in piedi, tuttavia vicinissimi a percepire anche il minimo respiro dei musicisti. E’ subito balzata all’occhio ed arrivata agli orecchi la voglia di suonare, lasciando spazio ad una creatività senza limiti temporali – in 80 minuti 7 brani-, ad una verve, ad una grinta, ad un groove, come ben poche volte capita di assistere.

La scaletta prevedeva per la maggior parte composizioni del sassofonista e clarinettista Marty Ehrlich, a partire dall’iniziale ‘As Yet’, affrontata al contralto e infarcita di citazioni, da Thelonious Monk, a ‘St.Thomas’ di Sonny Rollins a ‘Salt Peanuts’. Elegiaca, ‘Portrait of Leroy Jenkins’ trova uno sviluppo solenne che si conclude con una lunga appendice latina, i quarti scanditi dal campanaccio della batteria. Eccellente, il batterista Matt Wilson passa dal 4/4 veloce al funky di ‘Hear you say’, per il quale uno dei due piatti sospesi viene stoppato con una tela. Esegue un lungo assolo introduttivo in ‘Hot Crab Cut’ nel quale si apprezza l’accordatura impeccabile, un canto melodico, dei tamburi, dalle pelli molto tirate, il calore e la qualità di due vecchi piatti Zildjian, uno dei quali chiodato. La sua ipnotica, ora lenta, ora veloce percussione crea una tensione positiva che fa scattare una lunga improvvisazione del contralto. Si scopre così quanto sia più libero e creativo un quartetto senza pianoforte. Il contrabbassista Brad Jones è costretto ad un lavoro, forse più faticoso, ma riesce a dar corpo ad assolo in cui le corde vengono quasi strappate dallo strumento. I quattro si caricano tra loro prima di ogni brano, con risate ed ironia e dopo una mistica ‘Prayer’, si arriva ad una scatenata rumba conclusiva, ‘The Alligator Rhumba’, totalmente trascinante, cui il pubblico tributa calorosissimi applausi intercalati da grida utili a spezzare la tensione. C’è tempo per un bis, un Blues che ci riporta a sonorità mingusiane, nel quale il trombonista Ray Anderson utilizza la sordina, creando atmosfere ferocemente ‘Jungle’. Gli appassionati si scambiano occhiate e commenti, felici di un concerto, come se ne vedono pochi, e si spostano in un altro salone, dov’è stato allestito un piccolo rinfresco a base di vini di ottima qualità.

Ci si sposta nella vicina Cormòns, curiosi di ascoltare il batterista Manu Katchè, session man richiesto nelle situazioni più disparate, alla testa di un quartetto a suo nome. Riuscirà a creare una musica coinvolgente, ma soprattutto, di spessore? Purtroppo la risposta è stata negativa. In 90 minuti, Katchè ha presentato un repertorio piatto, brano dopo brano, senza picchi. Un funky easy listening che forse, e sottolineiamo forse, potrebbe passare come musica di sottofondo, ma che non prende, non si fa spazio nell’animo. Peccato, perché il musicista è simpatico, anche sé mette un po’ in difficoltà l’organizzazione pretendendo un particolare modello di batteria. Ci sono più tamburi e più piatti che nel pomeriggio, le pelli sono più allentate, prevalgono suoni che si espandono con rimbombo. Non c’è il basso, il cui compito compete all’organista Michael Gorman, un nome annunciato solo due giorni prima, unitamente a quello del sassofonista Peter Wettre, a sostituire il bravo Tore Brunborg, apprezzato quest’estate con il pianista Tord Gustavsen. Non sembra particolarmente interessante, né al soprano, né al tenore. Forse la tromba di Luca Aquino, da Benevento, potrebbe brillare di più in altri contesti, magari più originali. Le qualità paiono esserci. La platea, comunque, tributa educati applausi dopo ogni brano, ma è un concerto privo di grinta e tensione, che si conclude con il bis previsto in scaletta,’Snaps hot’, cui non seguono richieste ulteriori.