Al Teatro Goldoni la chiusura in bellezza dell’evento con il gruppo scandinavo
di Giovanni Greto
L’ultimo appuntamento di richiamo della quinta edizione del ‘Venezia Jazz Festival’ è anche l’unico in cui si ascolta jazz. Apre la serata il quartetto del pianista norvegese Tord Gustavsen, quattro Cd incisi per l’etichetta ECM, in trio, tranne il recente ‘The Well’, dove si aggiunge il sassofonista Tore Brunborg. Una sonorità calda e corposa la sua, che ben s’inserisce a commentare le composizioni del leader, inizialmente cupe, ma che poi gradatamente si aprono all’improvvisazione collettiva. Mentre suona, Gustavsen si muove con tutto il corpo ma, per fortuna, non emette quelle sonorità vocali fastidiose, di cui si fece capostipite Keith Jarrett, influenzando, purtroppo, molti musicisti, non solo pianisti.
Il repertorio proposto spaziava da composizioni già esistenti a novità per una probabile nuova incisione. Nelle brevi presentazioni, il pianista ha spiegato che spesso il gruppo suona nelle chiese, confermando un qualche cosa di spirituale, di cui la sua musica si fa portatrice. A volte il quartetto ricorda quello europeo di Jarrett, ma Brunborg è preferibile a Garbarek, dal suono nasale più accentuato. La ritmica, assai attenta, non è mai invasiva: i due musicisti mettono in pratica con intelligenza ciò che il leader chiede loro. E così le dinamiche sonore sono perfette. I volumi crescono e si diradano, come una tavolozza di colori, ora intensi, ora tenui. Eilertsen si distingue per degli assolo ben costruiti, dai quali si espande un suono profondo e morbido nello stesso tempo. Spesso contrabbasso e batteria tacciono, quasi a raccogliere le idee per poi ripartire colmi di nuova linfa creativa.
Giusto il tempo necessario per togliere il drum set e riposizionare il pianoforte, ed ecco salire sul palco la trentatreenne pianista giapponese, la quale dal 2003 ha iniziato ad incidere una serie di dischi, apprezzati sia dai musicisti che dalla critica. Fisicamente minuta, dal vivo Hiromi è comunque una forza della natura, anche se il suo pianismo è spesso troppo pieno, il fraseggio la prende per mano, col risultato di voler dimostrare quanto brava essa sia. Il pubblico comunque si appassiona e le tributa applausi ed acclamazioni durante un intenso set di 75 minuti, iniziato da una pirotecnica, vertiginosa versione di ‘I got rhythm’ di George Gershwin, il compositore più amato dall’artista, secondo quanto da lei stessa affermato alla fine dell’esecuzione. Hiromi, che non disdegna di percuotere il legno dello strumento, passa con disinvoltura da uno stile che ricorda Monk, ad uno legato all’era dello Swing, o, ancora più a ritroso, dello Stride piano. Tutto questo con grande bravura, anche se non c’è ancora un tocco per cui, di primo acchito, l’ascoltatore si rende conto subito di chi stia suonando. Tra i brani in scaletta, ‘Sicilian Blue’, contenuto anche nell’ultimo disco ‘Place to be’, una melodia che le è venuta di getto visitando la Sicilia, in modo molto naturale, probabilmente “ a causa di un cielo così azzurro, di un oceano blu e di incantevoli strade”.